Commento

Populismo

23 dicembre 2017
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Ultimamente si usa molto la parola ‘populista’. Ogni volta che qualcuno ci sta antipatico la buttiamo lì, sicuri di essere compresi dalla nostra cerchia: “Ah, ma quello lì è un populista!”. Ce l’ha con la globalizzazione? Populista. Ce l’ha coi migranti? Populista. Ce l’ha con la neve, con gl’insegnanti, coi bevitori? Populista. Scorciatoie, ovvio. Ormai definiamo populista tutto ciò con cui non ci identifichiamo. Col rischio di diventarlo anche noi.

Reset. Cos’è davvero, il populismo?
Cominciamo dall’inizio.
Narodniki. In russo, appunto, populisti.
Un gruppo assortito di intellettuali, di estrazione perlopiù aristocratica e borghese, che in testa aveva due cose: accoppare lo zar e instaurare un socialismo agrario, soppiantando i ricchi latifondisti. Niente fabbriche, niente socialismo scientifico: fattorie e regicidi. Nel 1881 riuscirono a uccidere Alessandro II. Per il resto andò un po’ meno bene, e furono Siberia e patate marce e lavori forzati. Stalin ne rubò la polemica coi latifondisti, ma solo per massacrare contadini ad libitum.
Prima definizione: populista è colui che contrappone all’élite il volere del popolo, del quale si ritiene portavoce. Senza sapere come andrà a finire.

Uova e galline

Già, il volere del popolo. Descrivere la dialettica populismo-popolo è scivoloso, un po’ come chiedersi se è nato prima l’uovo o la gallina. Chiaramente leghisti, lepenisti, trumpiani e grillini accolgono qualcosa che viene dalla piazza: umori, paure, opinioni. Qualsiasi politico che voglia essere eletto ci prova, d’altronde. Il salto di qualità sta nell’uso di queste pulsioni: mai contenute o corrette, sempre e solo assecondate a proprio uso e consumo. “Si trattava una volta – ha scritto Michele Serra – di convincere la gente della bontà delle proprie idee. Oggi si tratta di blandire la gente, di parassitarne gli umori, di imitarne le pulsioni.”

Il tutto viene preso, impacchettato e rivenduto al singolo (e)lettore con un messaggio semplice e chiaro: questa è la vox populi; se sei contro di noi, sei contro il popolo. Senza mai l’autocritica di Dostoevskij, scampato di un soffio alla forca per i suoi fervori rivoluzionari: “A nessuno di noi piace il popolo in quanto tale, ma solo come ciascuno di noi se l’è immaginato”.

Che poi il popolo, di per sé, è qualcosa di astratto. Si potrebbe dire che non esiste finché qualcuno non se lo inventa. Son lì per quello, i populisti.

Nemici

Ma è difficile vendere un ritratto del popolo, se a dipingerlo si parte dal bassoventre. Ognuno è fatto a modo suo: meglio allora non sventolare valori e tradizioni che magari non vanno bene a tutti. Meglio puntare su quel che si odia, più che su quel che si è. Lo diceva Sallustio, quello del metus hostilis: bisogna dargli una Cartagine da temere, ai Romani, altrimenti finisce che si mettono a litigare fra di loro.

Al giorno d’oggi ci si potrebbe stilare un intero catalogo-moda, coi nemici immaginari inventati dai populisti: le passerelle americane puntano molto sui colori sgargianti dei messicani, bad hombres che fanno sempre la loro figura, se te li immagini imbottiti di droga; in Europa ovviamente tira il nemico islamico, specie se nato qua: il “nemico fra noi” solletica la fantasia; se poi confondi il disagio sociale con l’odio religioso, hai creato l’uomo nero perfetto. E il nero va con tutto, si sa. Ottimo a queste latitudini anche il frontaliere: simile ma diverso, ladro di lavoro, certamente animato da un odio sordo per noialtri che gli diamo il pane.

L’operazione funziona, d’altronde, solo se si trova il giusto linguaggio. In un ipotetico manuale della grammatica populista, m’immagino istruzioni del tipo: costruite periodi brevi, usate parole semplici, schivate congiuntivi e condizionali – il dubbio è un nemico – non disdegnate la parolaccia o il dialettismo che fa tanto ‘vün d’i noss’. E soprattutto inventatevi epiteti formulari da ripetere continuamente: lo sapeva già Omero, che ripetere aiuta la memoria e fa passare il messaggio. (Forse non è esistito neanche Omero, come non esiste il popolo, ma è un altro discorso). Sfoglio a caso il domenicale che trovo qui al bar: benone “spalancatori di frontiere”, “camerieri dell’Ue”, “kompagni”. Efficaci “Fallitalia”, “Pravda di Comano”, “sfigatissimo cantone”, “multikulti” e “giornale delle tasse”. Ripetuti ognuno in una decina di pezzi diversi: così la gente si ricorda.

E quindi?

E quindi è difficile mettere all’angolo i populisti, uniti ai loro leader da un rapporto diretto, che scavalca gli antichi corpi intermedi (partiti, istituzioni). E i cui discorsi ormai escono dai bar per entrare nei salotti buoni: tanto che pare di stare in quella pièce di Ionesco in cui pian piano tutti, inspiegabilmente, si trasformano in rinoceronti.

La tentazione è quella di lasciar perdere, tanto la mamma dei cretini è sempre incinta: sono tutti brutti e cattivi, contessa. Ma anche snobbarli è un viziaccio borghese, peraltro entrato da tempo nel sangue dei progressisti: “Il difetto contrario consiste nel parlare alla gente come se fosse sempre scema e colpevole. Vedi alla voce: sinistra. Cercasi una via di mezzo dignitosa” (sempre Serra). Insomma: non basta conoscerli, bisogna averci a che fare. Che fatica.

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