Commento

Il senso delle parole

17 novembre 2016
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Ridare un senso alle parole. A quelle semplici, che ci condizionano la vita assai di più di quanto comunemente si creda. Paolo Rumiz, scrittore e giornalista, ne ha parlato in una recente riflessione sul razzismo. Le parole sdoganano i fatti, scrive il triestino, e il silenzio dei benpensanti (di coloro che hanno pensieri equilibrati) preoccupa di più, in questi tempi, delle urla di odio. Occorre riappropriarci delle belle parole, ripulendole dai sottintesi, dalle allusioni, dalla ferocia, dai tormentoni usati per veicolare messaggi subdoli. Ne sappiamo qualcosa anche in Canton Ticino. Maestri in questo campo, va detto, sono coloro che scrivono sul ‘Mattino della domenica’, settimanale della Lega dove spesso menti creative hanno trovato spazio e sfogo, perché altrimenti negato. Soprattutto agli inizi, quando Giuliano Bignasca “appaltava” il suo foglio alle ingiurie così sdoganate e a manovre altrimenti indicibili. Più che un settimanale politico, ci ricorda i tazebao (giornali murali ai tempi della rivoluzione cinese) o le scritte sui muri dove ognuno, trasgredendo, libera la fantasia e gli impulsi. Bravi loro a inventarsi parole ridondanti e sciocchi noi giornalisti a riproporle acriticamente, giocando inconsapevolmente lo stesso gioco. È capitato anche con la campagna di Blocher e recentemente, clamorosamente, con la corsa alla presidenza di Trump. Dicevamo ‘il Mattino’. L’ultimo esempio domenica scorsa, con il rilancio del “fetido balzello” (a proposito della tassa sui rifiuti) e del “villaggio gallico” coniato da Claudio Zali (leghista) per Lugano, città con sindaco leghista che non vuole la suddetta tassa. In entrambi i casi gli aggettivi “fetido” e “gallico” stimolano ironia e ispirano simpatia, quando dovrebbe essere il contrario perché realtà da condannare secondo gli ideatori. Darsi del “populista” è oggi segno di vanto perché si confonde – volontariamente – il sentire popolare con l’esasperazione e la manipolazione del medesimo. Di più. Tutto ciò che è incomprensibile, complicato, lontano, appare immediatamente sospetto. È saltato il rapporto di fiducia con i mediatori, con coloro (i cosiddetti intellettuali) che lo Stato illuminato voleva pedagoghi ed educatori del popolo. Sono finiti nella casta (altra parola oggi fortunata) con politici, burocrati e anche giornalisti. Con tutti coloro che dovrebbero mediare, appunto, fra il bisogno di conoscenza e la disuguaglianza diffusa. La casta, proprio perché tale, ha fallito e si naviga dunque in mare aperto, senza timonieri. Tutti mozzi alla deriva, attaccati al proprio salvagente digitale. Fluttuano così le parole, come bandiere sventolate alla bisogna. Prima i nostri, s’è detto, come se in quei “nostri” ci fosse tutta la storia, l’identità, la nostra vita passata, presente e futura. E soprattutto come se fosse chiaro chi sono, questi nostri che citiamo. Nostri sino a che punto e a che grado? Nostri perché generati dal nostro ventre o perché acquisiti con i nostri soldi e il nostro benessere? Nostri semplicemente perché qui residenti e dunque lontani da noi, diversi, coloro che abitano anche solo a Grono o a Zermatt? Le parole come coperte che riscaldano la nostra insicurezza data da tutto ciò che ci sfugge. Le parole rubate, manipolate, decontestualizzate e persino svuotate. Si potrebbe ripartire dalla bellezza, che è figlia della natura e anche dell’intelletto. Che si manifesta nel quotidiano, assai di più di quanto si creda. Che è ricerca e fatica, e non sa mentire. Si ripartirà prima o poi da nuove élite – perché serve pur qualcuno in cui credere, nonostante tutto – capaci finalmente di parlare con belle parole. Nuove e vecchie, ma vere. Che sanno andare dritte al cuore senza per questo offendere e ferire i “vostri” o i “loro”. E dare forza vera ai “nostri”.

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