La vittima: ‘Le cicatrici non guariscono facilmente’. Le responsabilità di una società, dove molto è spettacolarizzazione. Parla l’esperto Matteo Lancini
Eleonora ha cambiato tre scuole per sfuggire ai bulli che la molestavano. «Se capiscono che ti feriscono, è finita». La mamma di una 12enne del Sopraceneri racconta come sua figlia ha tenuto nascosto per settimane i lividi lasciati dal compagno di banco. Docenti e genitori disorientati davanti al disagio giovanile che si manifesta con violenza verso i compagni più deboli o verso sé stessi. Cosa ci stanno raccontando gli adolescenti? Ne parliamo con Matteo Lancini, psicologo, psicoterapeuta, presidente della Fondazione Minotauro di Milano, uno dei più autorevoli esperti di adolescenza in Italia. Dopo il successo di ‘Sii te stesso a modo mio’ (2023) torna in libreria con ‘Chiamami adulto. Come stare in relazione con gli adolescenti’ (Cortina editore). Un suo consiglio? «Chiudere i gruppi WhatsApp».
Bullismo, autolesionismo. Volti di un disagio giovanile che lascia genitori e docenti disarmati: perché tanta violenza?
C’è chi riconduce questo disagio al fatto che i giovani sono stati messi troppo al centro dell’attenzione, a rovinarli sarebbero smartphone, social, videogiochi. Una visione semplicistica che non coglie la complessità del problema. Gli adolescenti sono figli di un modello che sembra ascoltarli più che in passato, ma crescono in una società che tende a mettere a tacere le emozioni ‘scomode’: paura, rabbia, tristezza, tanto per citare le più importanti, vengono negate e rimosse. Questi ragazzi sono stati spesso privati della possibilità di esprimere queste emozioni fondamentali. Un vuoto identitario che, unito alla mancanza di prospettive future, genera nuove forme di sofferenza.
Dietro a tanta violenza ci sarebbe una sorta di analfabetismo emotivo?
La nostra è una società pornografizzata che prende le emozioni e le rende pubbliche. Dobbiamo smetterla di filmare i ragazzi da quando sono bambini e di puntare tutto sull’immagine. Allo stesso tempo è una società che tende a rimuovere il dolore. Si fatica a trattare queste emozioni dentro l’ambito di una relazione. L’alfabetizzazione emotiva riguarda soprattutto gli adulti. Se non aiutiamo questi ragazzi a integrare queste emozioni, durante l’adolescenza possono esplodere e diventare violenza, verso sé stessi o verso l’altro.
Qualche consiglio?
Aiutare i giovani a costruire una propria identità in un contesto iperconnesso. C’è un’ansia generalizzata, legata a questo vuoto identitario, al fatto di aver dovuto crescere essendo sé stessi a modo degli altri, in un sistema di valori ideali molto elevati, in una società altamente performante, che punta tutto sul fare.
Il bullismo è un volto di questo disagio diffuso, che crea molta sofferenza. Come affrontarlo?
Il primo consiglio è quello di chiudere i gruppi WhatsApp dei genitori, che spesso alimentano il cyberbullismo. Ogni genitore che parla male di un altro genitore mostra ai bambini che si può prevaricare l’altro. Poi va chiarito un punto: una spinta in classe non è bullismo, ma un conflitto fisiologico. Il bullismo si qualifica se c’è un’asimmetria della relazione, ripetuta nel tempo con tutti gli attori nello stesso ruolo.
E quando è bullismo, come agire?
Chi subisce spesso non si confida con genitori e insegnanti perché teme le reazioni esagerate degli adulti, che rischiano di metterli ancora più in difficoltà. Non serve mortificare o allontanare chi si comporta da bullo: cambierà obiettivo e lo rifarà. Chi prevarica l’altro, spesso lo fa perché si sente fragile. Appena percepisce una fragilità, la attacca, la mette a tacere. Servirebbero provvedimenti educativi, come mandare questi giovani a fare lavori socialmente utili.
Come possono i genitori supportare al meglio queste generazioni?
Occorre puntare sulla relazione autentica che è in grado di nominare il dolore, che sappia stare (e non fare), rimettendo al centro il soggetto, ossia l’altro, e non la propria performance. La relazione implica questo: tu cosa provi, di che cosa hai bisogno? Un adolescente non la pensa per forza come te. Impariamo allora a stare zitti e ascoltare il dolore di un figlio o di una figlia. Invece di sequestrare il cellulare ai 12enni dovremmo chiedere loro come si vedono dinnanzi allo specchio e se pensano mai al suicidio. È un pensiero molto presente nelle nuove generazioni.
Quale è il ruolo della scuola in tutto questo?
Aiutarli a diventare adulti. E ciò implica non pensare a sé ma identificarsi all’altro, a chi hai davanti. Invece si continua ad applicare modelli educativi stereotipati come fossero tutti uguali. Infatti assistiamo a una dispersione scolastica senza precedenti. Oggi un adolescente mediamente intelligente a scuola si annoia, non ne vede il senso, gli serve solo il titolo. Non mettiamo più al centro l’apprendimento ma una valutazione standardizzata. Si valutano gli apprendimenti con domande, quando servirebbe insegnare ai ragazzi a porre le domande giuste.
«Il bullismo lascia cicatrici. Si superano ma non si rimarginano completamente, si possono riattivare in alcune situazioni», spiega Eleonora, 27 anni. Aveva 10 anni, quando i compagni hanno iniziato a schernirla. «Mi dicevano che ero una secchiona. Mi schernivano per i peli sulle braccia, i baffetti. Mi chiamavano scimmia, anche in classe. Sapevano che mi faceva male e insistevano. Hanno rovinato un’esperienza formativa sociale, quella che ogni studente fa a scuola», precisa. Cresciuta a Lugano, Eleonora è finita in terapia, a 18 anni ha lasciato il Ticino, continuando gli studi superiori in Italia. Oggi lavora per un’azienda di tecnologia medica e come promotrice culturale per aziende sul territorio. A 25 anni, dopo varie esperienze all’estero, è tornata in Ticino. «Sono stata vittima di bullismo tra la fine delle Elementari e durante le Medie. Un’esperienza che ha influenzato negativamente i rapporti coi miei coetanei e allontanandomi al contempo dal Ticino», racconta la giovane nella videointervista a laRegione (sul nostro canale Instagram). Riferisce di episodi di violenza fisica in prima media: «Non da mandarmi all’ospedale, ma i miei genitori sono intervenuti. Inoltre a casa c’era una situazione difficile che mi toglieva energia». La ragazza cambia scuola, ma le cose non migliorano. «La seconda media è stato un periodo molto difficile. Alcuni nuovi compagni giocavano a calcio coi bulli della scuola precedente. Tutto è ricominciato di nuovo, ma ancora peggio, perché nella nuova classe non avevo amici, ero sola».
Eleonora ha superato questa difficile fase e fa una riflessione: «Ho capito che le Medie sono una palestra sociale. Ti mettono alla prova, per vedere come reagisci agli insulti. Se capiscono che ti feriscono, continuano. Non c’è alcuna empatia che frena i bulli». Mentre oggi la scuola è più sensibile a questi temi e i docenti di classe hanno indicazioni su cosa fare o non fare, ai tempi di Eleonora, forse molto veniva lasciato alla sensibilità dei singoli docenti. La ventenne racconta anche di insulti in classe durante le lezioni. «Mi chiamavano scimmia, aggiungendo altri insulti. Una docente di lingue, invece di riprendere i compagni, ha detto loro almeno di dirlo in tedesco. Si cambiava la lingua, ma gli insulti erano gli stessi».
Alla ragazza i docenti dicevano che avesse un carattere difficile. «Ai miei tempi il corpo docente non sapeva cosa fare. Mi dicevano: “Lasciali fare. Te la prendi troppo”». Ma per Eleonora le giornate a scuola erano difficili. «Mi minacciavano di far sparire la giacca, la felpa, di mettermi l’acqua nelle scarpe, a mensa nessuno voleva sedersi con me, mi insultavano. Erano piccoli gesti ma reiterati ogni giorno, mi hanno fatto sentire molto insicura. Mi sono chiusa a riccio. Mi sentivo mutilata, non potevo esprimermi». Eleonora si teneva tutto dentro. I genitori hanno scoperto, solo a fine anno, che anche nella seconda scuola la figlia era vittima di bullismo. «Ho cambiato di nuovo scuola, per gli ultimi 2 anni, in sostanza 4 anni di Medie in 3 sedi diverse». Gli ultimi anni vanno meglio. «Davo per scontato che non potevo risultare simpatica e non avrei avuto nessun tipo di appoggio. Mi ero già arresa». Oggi Eleonora, anche grazie a nuove esperienze, ha voltato pagina. «Ho capito che sono una persona di valore». Il suo messaggio alle vittime è questo: «Ricorda a te stessa che vali a prescindere da ciò che succede e chiedi aiuto a chi è formato».
Con sua figlia 12enne c’era qualcosa che non andava. «È una ragazza estroversa, molto attiva, sempre allegra. Da qualche tempo la vedevo taciturna, dopo cena si ritirava nella sua camera, alle 19 già dormiva. Quando faceva la doccia vietava a tutti di entrare in bagno. Mi sembrava tutto molto strano», ci racconta sua madre (che preferisce rimanere anonima). La famiglia vive nel Sopraceneri dove l’adolescente va alle Medie.
Inquieta la madre parla alla figlia senza avere una spiegazione. Una sera entra nella sua camera mentre lei sta infilandosi il pigiama e vede dei lividi e dei graffi sulle gambe. «Si è messa a piangere, raccontando che un compagno la prendeva di mira, le dava sberle, le rubava le cose dall’astuccio, l’aveva picchiata in palestra durante l’ora di educazione fisica. Sulle gambe aveva il segno delle corde». Quello che ha fatto andare fuori di testa la madre è sapere che l’aveva pure minacciata con un coltellino: «Se parli vai a finire male! Mia figlia mi ha scongiurato di non fare nulla». Per la madre tacere era fuori discussione.
La donna avvisa il docente di classe. Scopre che sua figlia, molto calma e con buoni risultati scolastici, era stata messa accanto a un compagno molto burrascoso. Lei lo aiutava come poteva. Finché per la ragazza è iniziato l’inferno quotidiano. Perché a scuola si trascorrono tante ore.
Dopo la segnalazione, il docente di classe ha controllato i cellulari di entrambi: «Ha visto pesanti insulti via WhatsApp a mia figlia e anche a me». La direzione della scuola, continua, ha convocato lo studente che ha ammesso i fatti e ha dovuto scusarsi con la compagna. «Volevo incontrare questo ragazzo e i suoi genitori con la mediazione della scuola. Ho sollecitato l’incontro e mi aspettavo che la direzione lo organizzasse ma non è avvenuto. Mi avrebbe rassicurato di più». I due studenti ora non sono più di banco assieme e il docente di classe si è impegnato a vigilare. «A volte fanno ancora dei lavori in classe assieme. Lui sembra più gentile. Non voglio che si ripetano questi episodi. Come genitore ti senti impotente», conclude la madre.