laR+
logoBol

Disregolazione emotiva nei giovani: chiamiamola nuova epidemia

Alla Clinica Santa Croce il primo reparto in Ticino dedicato alla fascia 15-25 anni: dolorose testimonianze di un generico disagio esistenziale

Farsi del male

Alla Clinica Santa Croce il primo reparto in Ticino dedicato alla fascia 15-25 anni: dolorose testimonianze di un generico disagio esistenziale

2 febbraio 2023
|

Disregolazione emotiva. È una diagnosi sempre più frequente nella fascia che comprende adolescenti e giovani adulti. Parliamo di una vera e propria nuova epidemia, determinata certamente da situazioni familiari e di contesto particolari, ma prima ancora da quella stessa società che le provoca, ma poi non riesce ad accettarne le conseguenze, e tende a "marchiare", semplicisticamente, come malattia.

Il trend è in netto aumento e si sovrappone con le altre molteplici casistiche normalmente trattate dalla clinica Santa Croce di Orselina, unica struttura psichiatrica del Sopraceneri. Proprio alla Santa Croce avrebbe chiesto di essere ricoverato il fratello 20enne del giovane che aveva ucciso la madre ad Avegno di Fuori. Ventenne che pochi giorni fa è stato arrestato per aver dato fuoco all’abitazione in Vallemaggia dove era avvenuto il delitto; e ciò sarebbe successo prima che venisse il suo turno nella lista d’attesa per accedere al nosocomio privato.

Per casi di profondo disagio in parte o del tutto equiparabili a quello del giovane locarnese, prima in Ticino la Santa Croce ha due reparti: uno, il "protetto", è chiuso; l’altro, il "ConTatto", è aperto e nuovo: attivo dai primi di luglio, dispone (per ora) di 9 letti. La denominazione è frutto di un gioco di parole fin troppo comodo, ma molto centrato visti gli scopi che persegue. Ne abbiamo parlato con la primaria della Santa Croce, dottoressa Sara Fumagalli, e con il responsabile del reparto "ConTatto", il medico psichiatra Daniele Garino.

Dottoressa Fumagalli, il reparto "ConTatto" è di recente apertura ma parte da lontano.

Sì, in effetti l’idea di realizzare qualcosa di dedicato era nata già qualche anno fa, quando si cominciava ad osservare quel trend giovanile in netto aumento. I ragazzi arrivavano in clinica come "schegge impazzite", espulse dalla società, che li considerava malati. Non si parlava di casistiche psichiatriche scientificamente determinate, ma, più genericamente, di disagio esistenziale. Il che è se vogliamo ancor più allarmante, perché legato ad aspetti ambientali, familiari, sociali e scolastici. Era ed è insomma il contesto che diventa coadiuvante di quello che esprime il giovane. Egli diventa quindi per certi versi il sintomo più visibile della società in cui vive. Questo lo osservavamo appunto già 5 o 6 anni fa e ci chiedevamo come curare questa tipologia di malessere. Ci era già chiaro che dare un farmaco significa quasi cronicizzare e psichiatrizzare qualcuno che, semplicemente, pone delle domande e soprattutto cerca risposte.

Quindi?

Emergeva la necessità di costruire qualcosa di più confacente e adatto a quelle esigenze. Il come farlo è stato un lungo parto, perché in effetti trovare una risposta non è affatto banale. Per capire come altrove venivano gestite simili problematiche ci siamo confrontati con foyer e altre strutture in Italia e in Svizzera interna. Non abbiamo trovato risposte univoche. E dobbiamo inoltre considerare che i giovani ticinesi di oggi sono decisamente avanti rispetto ai loro coetanei del passato, e con questo intendo tredicenni che si ritrovano a che fare, nell’ambiente scolastico, con situazioni che noi letteralmente ci sognavamo.

"Situazioni limite" di non facile gestione.

Infatti l’argomento era stato tematizzato come criticità per noi, perché gli infermieri continuavano a venir messi a dura prova nella gestione di giovani che, ad esempio, si tagliano ogni giorno, così come ogni giorno presentano comportamenti che naturalmente sono da leggere come richieste di aiuto, ma alle quali non è affatto facile dare risposte immediate ed efficaci. Nella riflessione multidisciplinare, fatta di riunioni, visite e confronti, si è a un certo punto inserito il Covid, che ha canalizzato gran parte delle nostre energie per un anno buono. Nel frattempo, per una coincidenza fortuita, c’è comunque stata la possibilità di seguire una formazione specifica sui giovani con il San Raffaele di Milano, che dispone di ambulatori che vanno avanti da vent’anni sulla tematica. Abbiamo quindi messo assieme le diverse competenze e deciso, pur nell’ambito di una clinica acuta quale noi siamo, di effettuare un approccio ambientale, favorendo l’ascolto e lasciando quale ultima ratio il "cerotto", ovvero il farmaco, con il quale si corre il rischio di fare dei danni.

Poi è arrivato il "ConTatto".

L’idea è venuta da sè: creare appunto un reparto protetto non chiuso, con una capacità di 9 posti e un’organizzazione "scolastica" come planning settimanale condiviso, che favorisce un senso di appartenenza e di fratellanza fra i giovani. Qualcosa che permette di condividere un ritmo, ma anche delle fragilità. C’è dunque un’impronta fortemente familiare, ma con una presa a carico acuta e molto specialistica, utilizzando strategie psicoterapiche, psicoeducative, strutturali, di accompagnamento e di ascolto, oltre che, se necessario, di farmaco.

Quali riscontri avete, finora?

Osserviamo in primo luogo le grandi capacità autoterapiche dei ragazzi, che sanno aiutarsi reciprocamente. In aggiunta a questo c’è l’interazione con gli ospiti adulti, che diventano un po’ genitori o fratelli maggiori e con i quali si creano vicinanza e complicità. Quegli stessi adulti che prima venivano inquadrati come "il nemico che non capisce nulla" – a partire da quelli che portavano il camice – oggi sono considerati un potenziale aiuto. Prima ci confrontavamo con il fallimento di sentirsi impotenti, disarmati, non sufficientemente efficaci. Ci impegnavamo ma non era abbastanza. E ciò ci faceva star male. Oggi notiamo in primo luogo un gran sollievo nei ragazzi: ci dicono che sentono di appartenere a qualcosa, mentre prima si sentivano dispersi come del resto lo sono fuori dalla clinica.

È chiaro che ragazze e ragazzi in difficoltà sono una triste, spesso drammatica espressione della società in cui viviamo.

Il ragazzo è un capro espiatorio e anche sintomo di un sistema. Quello che chiede è, nel 90% dei casi, di essere ascoltato. Non tanto per ottenere delle risposte, ma per trovare un sostegno mentale per cercarle, superando l’impulsività e i deficit di elaborazione di emozioni e sensazioni. Uno degli obiettivi è trasformare il problema apicale (ed epocale, per i giovani) della rabbia da distruzione o autodistruzione a portatrice di evoluzione; dipende dall’uso che ne fai.

Qual è il ruolo delle famiglie?

Vengono naturalmente coinvolte, ma nel rispetto del ragazzo. Se è minore, legalmente siamo tenuti a conferire con i genitori, mantenendo comunque una privacy rispetto ai contenuti più personali del giovane. Va detto che spesso ci accorgiamo che il genitore ha quasi più bisogno di aiuto del figlio. E questo è un altro tema su cui dobbiamo proiettarci. Il dottor Garino e la sua équipe danno un grosso sostegno alle famiglie, già solo per il tempo passato al telefono o a fare colloqui. Ma credo che a breve servirà qualcosa di più strutturato – non psichiatrico, ma piuttosto psicoterapico e psicoeducativo – anche per loro. Perché sono spaventati, non capiscono e non accettano: l’assunto, spesso, è "psichiatria uguale matto", ma la reazione immediata è "mio figlio non è matto". Non nego che alcuni sono figli di pazienti psichiatrici. In questo senso non c’è però da considerare un aspetto genetico, quanto educativo da parte di genitori fragili, immaturi e impreparati, come quella stessa società in cui viviamo e che crea molta confusione sui valori da trasmettere a un figlio. In questo senso posso tornare molto utili gli anziani, che però abbiamo ghettizzato poiché non più rispondenti a un mondo produttivo che si è dimenticato dei contenuti.

Oltre alla famiglia c’è poi tutto un contesto da ascoltare e nel quale se necessario intervenire.

È vero: parliamo di confusione dei giovani e dei loro genitori, ma questo sentimento accomuna tutto un ambiente: dalle scuole ai datori di lavoro, ai compagni di squadra e all’allenatore. È necessario che tutti ci si rimetta a far cerchio, più consapevolmente, in maniera tale che i ragazzi ritrovino dei riferimenti e sentano di poter essere capiti anche fuori dal contesto strettamente familiare.

Ma c’è anche un "dopo" a cui pensare?

Assolutamente, ed è fondamentale pensarci fin da quando arrivano. Noi offriamo un ponte, nella cui "costruzione", se serve e se viene richiesto, c’è anche un periodo di trattamento ambulatoriale intenso, quotidiano. Se consideriamo che alcuni ospiti vengono dal Sottoceneri, ciò presuppone una forte motivazione. Dopo la dimissione si può continuare il trattamento ambulatoriale qui, oppure attivare una rete, che esiste e le cui "maglie" noi stessi stiamo cominciando a scoprire. La realtà è complessa e molto ricca. Parallelamente, può iniziare un trattamento a domicilio di un sostegno adeguato tramite infermieri, ergoterapisti, centri di aiuto, ascolto telefonico e altri attori. Ripeto, gli elementi ci sono tutti, ma devono agire coordinati, lavorando con ragazzo, genitori, scuola, eccetera. Per funzionare, questo meccanismo richiede passione e capacità di reagire alle frustrazioni, che a volte si manifestano, anche in noi operatori.

Parlava di rete di aiuto, protezione e prevenzione. Come è strutturata in Ticino?

Le strutture di sostegno non mancano (l’Ufficio dell’aiuto e della protezione – Uap –, l’Ufficio minori, l’Ufficio famiglie) ma tutto è ancora molto frammentato perché ancora non abbiamo una casistica sufficientemente rilevante da determinare un’attivazione combinata di tutti, "obbligandoci" a dialogare di più fra noi. Per fortuna le cose stanno cambiando. Negli ultimi tempi ci siamo imposti di fare una riunione al mese con l’Uap, con tutti gli Spm (Servizi per i minori esistenti), i Servizi psichiatrici per adulti (Sps), che subentrano nella presa a carico dei minorenni quasi congiuntamente agli Smp nel momento del passaggio alla maggiore età; poi telefoniamo ciclicamente a tutti i curanti, ai medici di famiglia, eccetera. È vero che esiste il rischio che la casistica aumenti, ed è quindi fondamentale agire di prevenzione.

L’unica parola d’ordine può quindi essere "unione".

Sembra una banalità, ma il grosso punto di forza per affrontare le conseguenze di questo cambiamento sociale epocale è proprio l’unione. Se si crea una squadra e si lavora assieme è completamente diverso rispetto a rimanere da soli a trattare determinate casistiche. Se ogni giorno mi arriva il ragazzo esprimendo idee suicidali – perché di questo stiamo parlando – da sola non ce la potrei fare: sarei sovraesposta emotivamente e dopo un po’ non dormirei più la notte. Lavorando in équipe, vedendo le cose da più punti di vista e imparando a differenziare compiti e ruoli, si può fare. E più la squadra è allargata, meglio è. Aggiungerei anche che sono fiduciosa: di recente abbiamo avuto un incontro con il coordinatore della Cellula socio-educativa d’urgenza per minorenni e progetto Centro educativo minorile itinerante (Cemi), quindi un esponente del pubblico. Si è posto veramente in modo collaborativo; ho notato una grande disponibilità, un grande credo, una grande voglia di rinnovamento.

Il caporeparto: ‘L’uso di sostanze, tentativi di auto-cura’

Dottor Daniele Garino, cosa si intende per disregolazione emotiva e a chi si rivolge esattamente il "ConTatto"?

La disregolazione emotiva determina una difficoltà ad abbassare il "volume" delle emozioni provate. Il problema è frequente in particolare nella fascia d’età 15-25 anni. Sappiamo che la maggior parte delle volte è dovuto ad un disturbo della personalità già presente, mentre in casi più rari arriviamo a diagnosi differenti, che richiedono altre modalità di intervento.

Dalle statistiche emerge una certa preponderanza di ragazze, rispetto ai ragazzi.

È esatto, tendenzialmente arrivano molti più soggetti di sesso femminile. Ciò perché spesso la disregolazione emotiva dei ragazzi è legata più ad altri aspetti di appartenenza psichiatrica, psicopatologici. Per le ragazze la fascia 15-25 anni risulta ampiamente coperta in tutte le sue parti, anche se le giovani attorno ai 18 anni emergono per rappresentanza. Sono ragazze e ragazzi che provengono da famiglie molto diverse. Ve ne sono alcune con problematicità e aspetti sociali e relazionali complicati, mentre altre sono apparentemente "normali", per quanto possano dirci i colloqui che facciamo con i familiari nel pre-ricovero.

In che misura nei casi di disregolazione emotiva è presente l’uso di sostanze?

In misura importante e riguarda svariate sostanze. Ma non si tratta dello stesso utilizzo di cui si parlava anni fa; mi riferisco ad esempio dell’eroina da buco, secondo la visione di allora del vizio. Oggi parliamo di tentativi di auto-cura per questa tensione assolutamente non decifrabile, spesso con un deficit di mentalizzazione di ciò che accade all’interno. Quanto a chi si procura delle ferite, è importante precisare che il taglio, molto spesso, non è un modo per richiedere attenzione, ma la possibilità di trasporre su un piano fisico un dolore assolutamente incontenibile e che abbia, almeno, un inizio e una fine; vertici che invece non ci sono nella percezione del ragazzo che prova questo tipo di esperienza interiore.

Voi come intervenite?

Cerchiamo di insegnare qualche tecnica – che non sia solo farmacologica, naturalmente – per prevenire le crisi quando la tensione comincia a salire, o per gestirle in maniera diversa. Solitamente facciamo anche una testistica psicometrica per capire se una terapia individuale, in collaborazione con i medici e le agenzie presenti sul territorio, sia più indicata rispetto a quella a gruppi svolta all’esterno. Nel reparto "ConTatto" non esiste il regime coatto: la volontarietà del percorso è un elemento essenziale ed estremamente importante. La strutturazione è molto precisa e riguarda spesso già la riappropriazione di alcune azioni elementari come rifarsi il letto, ritirare e riordinare a turno i vassoi dei pasti all’interno del reparto e curare gli spazi comuni. Si tratta di impegni basilari che sono parte della cura stessa; direi quasi una sorta di "estetica della cura".

Cosa succede con chi dimostra di non voler o saper restare?

Il reparto è delimitato da una porta – non chiusa a chiave – e rappresenta una nicchia di protezione. Ad alcune persone è necessario chiedere – non imporre – di rimanere per i primi 3-4 giorni in stretta osservanza delle dinamiche del gruppo. Va detto che non abbiamo ancora registrato casi di contrapposizione, con uscite deliberate o situazioni in cui qualcuno abbia oltrepassato un limite di comportamento. Questo ci dimostra che la valutazione pre-ingresso funziona. Dopo quei primi giorni c’è il permesso di uscire ed occupare altri spazi interni della clinica, ed anche esterni, "raggio parco".

Come funziona la terapia?

I gruppi che vengono proposti ne sono gli strumenti principali. Come nel reparto aperto vi sono 2 colloqui medici a settimana e c’è un’infermeria pronta per accogliere eventuali situazioni di criticità. Noi spingiamo affinché i giovani chiedano un aiuto prima che mettano in atto determinati agiti, come i tagli (molto frequenti) o altri comportamenti a rischio, che altro non sono che una loro risposta per provare a fermare l’escalation emotiva. In questo anche il gruppo ha un ruolo assolutamente importante. Mi riferisco ad esempio a quello definito "pianificazione", in cui si discutono e si condividono le strategie da adottare in quei casi. Per un ragazzo è molto più efficace sentirselo dire da qualcuno che, come lui, vive quell’emozione, piuttosto che da un esperto in camice bianco, ma che non ne ha esperienza diretta, sulla sua pelle. In questa dinamica notiamo che specialmente chi è a fine percorso, verso la terza o la quarta settimana di permanenza, tende ad accogliere chi arriva quasi in assenza di giudizio.

Nove posti non sono molti. Quanto credete di "resistere" prima che sia necessario ampliare?

Il dato rispetto ai posti sarà da valutare nel tempo. Alla base c’è comunque sempre una valutazione di chi arriva e di cosa può "portare" all’interno del reparto: se per qualche motivo c’è il rischio che stare nel "ConTatto" possa determinare dei problemi rispetto alle dinamiche già esistenti, o per qualcuno dei giovani già presenti in particolare, allora si concorda un ricovero nel reparto aperto e si attende la dimissione di chi avrebbe potuto soffrire quella presenza.

Un primo bilancio, ad esempio rispetto alle eventuali recidive?

Di recidive ancora non si può parlare perché abbiamo aperto solo da pochi mesi. Posso comunque dire che da quando abbiamo creato il reparto si sono diradate di molto determinate dinamiche problematiche che si verificavano prima, nel reparto aperto, condiviso dai ragazzi con gli altri pazienti della clinica. Attuando ascolto e organizzazione riusciamo evidentemente ad intercettare meglio delle tensioni prima che esplodano. Un aspetto da considerare nel "bene" o nel "male" – perché non è una questione solo positiva – è che si sta creando un passaparola piuttosto rilevante.