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Qatar 2022, la Coppa del mondo dell’inopportunità

Nel Paese che ospiterà i Mondiali i lavoratori sono tuttora vittime di abusi, fra turni massacranti e ricatti costanti da parte dei datori di lavoro

27 ottobre 2022
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Manca meno di un mese ai Mondiali di calcio in Qatar, fra i più discussi di sempre in quanto si svolgeranno in un Paese ben noto non solo per le leggi ispirate alla morale islamica ma anche, e soprattutto, per la cronica messa in pericolo dei diritti e della vita stessa dei lavoratori impegnati nella realizzazione delle imponenti strutture sportive e ricettive. Polemiche e più o meno espliciti inviti al boicottaggio sono arrivati fino alle nostre latitudini, tanto da spingere alcune città, come Losanna, a rinunciare ai maxischermi per la visione delle partite in segno di protesta per quella che appare, a tutti gli effetti, come una colossale operazione di ‘sportwashing’, ovvero il ripulirsi l’immagine (e la coscienza) ospitando grandi manifestazioni sportive.

Per i musulmani anche le frustate

Come in altri Paesi islamici, in Qatar il codice penale punisce con carcere o multe l’omosessualità, la blasfemia, il consumo d’alcol, l’adulterio. In più, per questi ultimi reati, così come per il furto o l’apostasia, se l’autore è musulmano può essere applicata la Shari’a, la legge islamica basata sul Corano e altri testi religiosi, che comporta anche punizioni corporali. Così, se per l’adulterio il codice penale assegna il carcere fino a 7 anni, la Shari’a prevede 100 frustate. Nell’Emirato la pena di morte per impiccagione o fucilazione è prevista soprattutto per reati contro la sicurezza nazionale come lo spionaggio, ma anche per l’omicidio premeditato o lo stupro e adulterio fra parenti o persone legate da rapporti di tutela. Tuttavia, l’ultima esecuzione registrata risale al 2003 per un caso di omicidio. La Shari’a prevede anche la morte per lapidazione in caso di adulterio fra persone sposate, pena che non risulta mai essere stata applicata a oggi.

Lo sponsor che incatena il lavoratore

Certo, non è la prima volta che la rassegna mondiale del calcio approda in Paesi non esattamente campioni di democrazia e rispetto dei diritti umani: nel 1934 fu l’Italia fascista a ospitare la Coppa Rimet (antenata della moderna Coppa del mondo), mentre i Mondiali del 1978 si svolsero, con annessi sospetti, nell’Argentina della giunta militare. Nel caso del Qatar, al di là delle questioni legate alla rigidità delle leggi in materia di morale pubblica, a suscitare indignazione è soprattutto la situazione dei lavoratori, in particolare di quelli impiegati nella realizzazione degli avveniristici stadi teatro delle partite dei prossimi Mondiali. Un sistema consolidato di abusi denunciato più volte da Amnesty International e riassunto in vari rapporti, di cui l’ultimo dell’ottobre 2022 intitolato "Unfinished business" (affari o questioni in sospeso). Sotto accusa, soprattutto, il sistema statale di sponsorizzazione per i lavoratori stranieri secondo il principio del "kafala" (affido) in vigore in quasi tutti i Paesi del Golfo Persico: dai rapporti emerge un radicato regime di sfruttamento dei lavoratori che le imprese sponsor, protette in ciò dalla legge, continuano a tenere sotto scacco, negando a chi manifesta l’intenzione di abbandonare il lavoro, specie se in seguito ad abusi, il rilascio del permesso di uscita e del certificato di non opposizione (No-Objection Certificate - Noc) necessari per accedere a un nuovo impiego o lasciare il Paese.

Il quadro di sistematici abusi ai danni dei lavoratori prevede passaporti confiscati così da far apparire i migranti di fatto clandestini, salari non pagati del tutto o in gran parte, cibo e acqua negati sotto il sole cocente, divieto agli operai di lasciare il luogo di lavoro, cifre esorbitanti richieste per il reclutamento (fino a 1’300 dollari). Un vero e proprio regime di lavoro forzato, denunciato nel 2014 anche dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo).

Quei troppi morti per ‘arresto cardiaco’

E ci sono poi i morti, tanti. Migliaia, secondo Amnesty, che accusa le autorità qatariane di bollarle frettolosamente come "per cause naturali" o "arresto cardiaco" senza alcuna indagine su un’eventuale correlazione con l’attività lavorativa: ciò che da un lato impedisce alle famiglie di ricevere un risarcimento, dall’altro rende difficile stimare il numero esatto di vittime del lavoro di preparazione dei Mondiali. Secondo uno studio accademico citato in un rapporto di Amnesty del maggio 2022, almeno 200 "morti cardiovascolari" di cittadini nepalesi tra 2009 e il 2017 avrebbero potuto essere evitate con adeguate misure di sicurezza contro il calore, implementate, tardivamente, a partire dal 2021.

Anche la Ilo, presentando il rapporto sulle morti sul lavoro in Qatar nel 2020, sottolineava come esso, pur essendo il più completo fino a quel momento, "identifica le lacune nella raccolta dei dati e le differenze nel modo in cui diversi ministeri e istituzioni classificano gli infortuni e i decessi legati al lavoro" e concludeva che "di conseguenza, non è ancora possibile presentare una cifra categorica sul numero di infortuni mortali sul lavoro nel Paese". Il rapporto parlava di 50 morti, oltre 500 feriti gravi e quasi 38’000 lavoratori che hanno riportato ferite di media gravità nell’anno di riferimento, in maggioranza provenienti da Bangladesh, India e Nepal e impiegati nel settore delle costruzioni.

Rimedi tardivi e in parte inapplicati

Amnesty punta il dito anche contro la Fifa, che ha inizialmente declinato ogni responsabilità al riguardo. Nell’ottobre del 2013 l’allora presidente Sepp Blatter dichiarava: "I diritti dei lavoratori saranno responsabilità del Qatar e delle aziende, molte delle quali europee, che vi lavorano. Non è una responsabilità primaria della Fifa, ma non possiamo chiudere gli occhi. Tuttavia, non è un intervento diretto della Fifa che può cambiare le cose". Successivamente, nel 2015 la stessa Fifa ha cambiato orientamento, aderendo ai Principi guida delle Nazioni Unite sui diritti umani e inserendo l’impegno al loro rispetto nel proprio statuto: solo nel 2017 è arrivata l’ammissione di responsabilità per i diritti dei lavoratori, inseriti insieme ad altri nella policy sui diritti umani.


Keystone

Da parte sua l’emirato negli ultimi anni ha messo in atto alcune importanti riforme per porre rimedio ai dilaganti abusi, ma, come osserva Amnesty nel suo report conclusivo, "nonostante l’evoluzione positiva del sistema lavorativo del Qatar, che ha migliorato le condizioni di vita e di lavoro di centinaia di migliaia di lavoratori migranti e che ha il potenziale per trasformare la vita di molti altri, resta ancora molto lavoro da fare per attuarle e fare rispettarle in modo efficace.

In concreto, nel 2017 il Qatar ha concluso un accordo con l’Ilo impegnandosi a fare dei passi avanti circa il trattamento e i diritti dei lavoratori. Sono stati dunque introdotti il limite di ore lavorative, pause obbligatorie, un giorno libero settimanale e ferie pagate: ciò che, insomma, è semplicemente la base di ogni rapporto lavorativo alle nostre latitudini. Successivamente, l’emirato ha ratificato due trattati internazionali chiave sui diritti umani, pur riservandosi di non riconoscere il diritto dei lavoratori di unirsi in sindacato (ciò che non è ancora di fatto avvenuto) mentre nel 2019 arrivava poi una legge sul salario minimo.

Riforme in gran parte sulla carta

A oggi, tuttavia, permangono gravi abusi e irregolarità in alcuni settori, in particolare quello delle agenzie di sicurezza private, i cui lavoratori sono spesso impiegati in occasione di importanti tornei calcistici: i report di Amnesty del 2022 denunciano ancora turni di lavoro eccessivamente lunghi, giorni di riposo settimanali negati per mesi o addirittura anni, deduzioni abusive dal salario, straordinari non pagati e altre illegalità. Nel rapporto emerge l’atteggiamento reticente del Ministero del lavoro del Qatar: a fronte della presentazione da parte dell’organizzazione di una lista di otto imprese nelle quali si verificano abusi, nessuna informazione è stata fornita su eventuali indagini, controlli effettuati, o azioni intraprese per porre rimedio alla situazione e offrire compensazione ai lavoratori o responsabilizzare i datori di lavoro.

Resta problematica anche la questione dello smantellamento del sistema del kafala, che colpisce in modo particolare le lavoratrici domestiche, ovvero quasi la metà delle donne migranti che lavorano in Qatar. Nel 2020 è stato ufficialmente abolito l’obbligo del permesso di uscita e del Noc per il 95% dei lavoratori stranieri, ma la riforma è rimasta in gran parte inattuata. Il Ministero del lavoro qatariota in una lettera del settembre 2022 dichiarava di aver approvato 374’378 domande di cambio lavoro, suggerendo con ciò un miglioramento della situazione. Un dato che, però, di per sé non offre alcuna indicazione sui passi avanti effettivamente compiuti, mancando l’informazione, richiesta da Amnesty e mai fornita dal governo, su quante sono state in totale le domande presentate e quanti i lavoratori che hanno effettivamente iniziato un nuovo impiego. A oggi, come dimostrano gli annunci di lavoro reperibili sui social network, il Noc o una analoga autorizzazione da parte del precedente datore di lavoro sono ancora richiesti per un nuovo impiego.


Fonte: Gruppo Facebook ‘Qatar Jobs’


Fonte: pagina Facebook ‘Jobs in Qatar’

A ciò, si aggiunge la diffusa pratica, da parte dei datori di lavoro, di inoltrare false denunce di fuga contro i lavoratori che decidono di lasciare l’impiego o di cancellarne arbitrariamente il QatarID (una sorta di numero Avs) soprattutto in seguito ad abusi, ponendoli così a rischio di arresto o deportazione: una potente arma di ricatto che, a dispetto dei proclami del governo, costituisce ancora un ostacolo che impedisce a molti lavoratori di affrancarsi da situazioni lavorative precarie. Anche qui Doha non ha ad oggi fornito dati che dimostrino la reale efficacia delle misure di contrasto attuate.

A meno di un mese dal calcio d’inizio restano legittime domande sull’opportunità di assegnare l’evento a un Paese nel quale i diritti dei lavoratori sono sistematicamente violati senza vincolare tale attribuzione anche all’attuazione di riforme che pongano rimedio alla consolidata situazione di abusi. E se l’ammissione di responsabilità da parte della Fifa e le misure prese dal Qatar sono state tardive o inefficaci, essendo ormai chiaramente troppo tardi per un ripensamento, ha allora fondamento la richiesta di Amnesty, a oggi inascoltata, di un risarcimento da Fifa e Qatar alle vittime del business del calcio e alle loro famiglie per il pesante tributo offerto alla macchina organizzativa. Sarebbe un raggio di luce in un mondo del calcio appesantito ormai da pesanti ombre.

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