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La guerra attraverso lo schermo

Non sono infatti i libri di storia a fare la storia: solo quando gli eventi si traducono in simboli, in emblemi, travalicano l’occasionalità

‘La libertà che guida il popolo’ di Delacroix, riferimento per tutti i moti libertari dell’Ottocento

Non sono infatti i libri di storia a fare la storia: solo quando gli eventi si traducono in simboli, in emblemi, travalicano l’occasionalità

15 aprile 2022
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Vi sono momenti drammatici in cui la cronaca sembra farsi storia. Sfilate sugli schermi di mezzo mondo, le scene dei morti abbandonati per le strade di Bucha nell’attuale guerra scatenata da Putin in Ucraina, è sicuramente uno di questi. Ma cos’è un fatto storico; che cosa lo differenzia dall’episodicità degli avvenimenti correnti? È la capacità di sedimentarsi nella memoria come un evento acquisito alla coscienza comune, nel senso di costituire un riferimento (positivo o negativo che sia) del patrimonio di idee che ci appartiene, che ci forma, che determina le nostre convinzioni e le nostre scelte, e che soprattutto si impone con esemplarità al di là del tempo.

La guerra in Ucraina, che dopo decenni è tornata a far scorrere sangue nel cuore dell’Europa, è veramente uno di questi momenti? Lo dubito, e proprio in forza della capacità della televisione di ridurre la portata degli eventi nel percorso temporale. Negli anni Novanta, durante le guerre nella ex-Iugoslavia, abbiamo visto sugli schermi le stesse immagini di tragedia immane: allora come adesso ci avevano commossi e indignati. Eppure le abbiamo dimenticate. La strage di Piazza Tienanmen ci aveva tenuti incollati ai teleschermi per giorni e ci aveva indignati allo stesso modo, ma poi è stata ugualmente rimossa. Se queste immagini ci fossero riproposte oggi passerebbero come ordinaria amministrazione di un telegiornale da archiviare il giorno dopo.

keystoneLa strage di Piazza Tienanmen ci aveva tenuti incollati ai teleschermi per giorni; poi è stata rimossa

In verità non sono le immagini in sé che ci colpiscono, ma la situazione che cresce intorno a loro, i gradi di emozione che si accumulano in un’intensità che, come rapidamente sale altrettanto rapidamente può spegnersi, come non ignorano i governanti delle nostre democrazie, i quali nelle loro decisioni cruciali (com’è oggi il sostegno all’Ucraina) sanno di poter contare sul consenso solo nel momento in cui la reazione emotiva è al massimo. Orbene questo non basta a fare la storia, che si sedimenta nelle coscienze solo in virtù delle emozioni di lunga durata. Certamente l’attuale guerra in Ucraina entrerà come capitolo della storia del XXI secolo, come prima lo è stata la guerra civile di Spagna, ma non farà parte dell’immaginario collettivo negli stessi termini.

C’è qualcosa di fondamentale infatti che differenzia la fase dei grandi eventi mediati dalla televisione da quelli del passato più lontano acquisiti alla memoria per altra via. L’evento televisivo non riesce a imporsi oltre il quotidiano. Se non interviene un’elaborazione rappresentativa che lo sottragga all’episodicità (procedimento che la televisione non può fare) esso è perso per la coscienza collettiva. La guerra del Golfo, oltre a essere stata l’evento bellico di dimensioni mondiali più esteso della seconda metà del XX secolo, è stata fra tutte le guerre la più documentata in tempo reale. Orbene, cosa ne è rimasto, al di là dei telegiornali che per qualche settimana ne furono monopolizzati? Al massimo il ricordo di un avvenimento fra i tanti. Nemmeno una canzone, che sappia, ne ha fissato la testimonianza nell’immaginario collettivo che pure si nutre ancora delle canzoni delle due guerre mondiali, della Resistenza eccetera.

Non sono infatti i libri di storia a fare la storia: essi servono solo a spiegarla. Solo quando gli eventi si traducono in simboli, in emblemi, travalicano l’occasionalità e il dato nozionistico per assurgere a referente di civiltà. La Canzone del Piave che Don Camillo lancia dall’altoparlante del suo campanile contro il comizio del rivale Peppone nel ben noto film, sollecitando la memoria di quest’ultimo e infiammandolo di fede patriottica col risultato di trasformare una manifestazione rivendicativa di classe in una festa nazionale, è un bell’esempio che mostra la portata dei valori epici e l’efficacia del veicolo espressivo umano più diretto come la parola poetica, come il canto.

La storia che conta per le civiltà è quella che passa attraverso le gesta, siano esse quelle narrate da poeti eccelsi come Omero o dai cantastorie che di villaggio in villaggio hanno intessuto una rete di memoria elementare ma solidissima tra il popolo analfabeta. Quanto effimero appare allora il potere della televisione! Capillare, sì, nella capacità di suscitare mode, di livellare comportamenti, di imporre centri d’interesse, ma costretto ad arrendersi là dove agisce la logica della tradizione, prodotta dalla memoria sedimentata!

Il vero potere delle immagini non è quello della televisione che usa le immagini della cronaca di oggi per sostituire quelle di ieri, ma quelle di un quadro come La libertà che guida il popolo di Delacroix diventato riferimento per tutti i moti libertari dell’800, o della Morte di Marat e degli altri quadri di Jacques-Louis David, probabilmente il primo artista figurativo che fu in grado di capire come la Rivoluzione francese avesse messo in moto una dinamica che richiedeva una mediazione emozionale tra la massa pronta ad assumere un ruolo politico e l’orientamento delle autorità impostesi alla sua guida. Il passaggio dall’espressione individuale all’espressione epica si gioca in momenti come quelli e da sempre l’arte si è fatta carico di questa funzione, che la fa partecipe della storia non come epifenomeno ma come fattore portante dello sviluppo della mentalità. Il Coro degli Ebrei nel Nabucco – "Va pensiero" – si è imposto come emblema del Risorgimento italiano, svolgendo in termini sonori la funzione monumentale che ad altro livello ha fatto sì che in ogni città italiana sia sorta una statua di Garibaldi.

Ogni guerra ha avuto le sue icone. La prima guerra mondiale ha celebrato i suoi momenti eroici attraverso le tavole di Achille Beltrame per "La domenica del Corriere", all’altezza dei giornali di alta tiratura che caratterizzarono la prima fase della società di massa. Alcune di quelle tavole sono diventate memorabili, mentre non è diventata memorabile nessuna immagine televisiva sui conflitti degli ultimi decenni, nemmeno l’agghiacciante scena del vietcong con la pistola puntata di un soldato sudvietnamita che lo colpisce e lo fa stramazzare. Qual è il motivo dei due diversi sviluppi?

La risposta è da cercare nell’elaborazione epica del messaggio. È significativo il fatto che, pur disponendo di fotoreporter che inviavano dal fronte immagini drammatiche, il giornale d’allora affidasse la copertina a un pittore chiamato a rimettere in scena l’episodio più rappresentativo, secondo le regole di una retorica espressiva in grado di coinvolgere i lettori in uno slancio di adesione unitario. Era l’enfatizzazione che allora consentiva al bersagliere Enrico Toti, ritratto nell’atto di gettare la sua stampella dalla trincea sulle linee nemiche, di trascinare nel gesto di sfida un intero popolo. Ciò non è possibile attraverso l’immagine di una creatura umana che cade al suolo come oggetto inanimato; ciò non è possibile nemmeno attraverso la ripresa della colonna infinita di donne, vecchi e bambini stracciati e infangati, la cui disperazione di profughi che hanno perso l’identità rimane tutta interiore e non è visibile, impenetrabile attraverso i visi stupiti, assenti, e gli sguardi vuoti, vere e proprie maschere di una verità non documentabile. Non a caso, a far da contrappunto all’inondazione di immagini televisive del conflitto in Ucraina, ha ripreso quota la cronaca degli inviati speciali. A loro è toccato di recuperare l’immaginario, riportando le storie strappate alle vittime della guerra, le loro testimonianze terrificanti, la memoria delle loro vite perdute insieme al paese abbandonato. Non è ancora l’epopea, ne è solo un simulacro; ma è sufficiente a mostrare come l’umanità abbia bisogno di alimentare il suo immaginario, di affidarsi alle grandi narrazioni per far sentire il singolo parte di un tutto, per raggiungere la dimensione della storia che sta al di là della dimensione quotidiana.

keystoneNon è il realismo il fattore che più facilmente coinvolge le coscienze, come dimostra ‘Guernica’ di Picasso

D’altra parte non è il realismo il fattore che più facilmente coinvolge le coscienze. Del grande conflitto europeo tra democrazia e fascismo, più che dai numerosi film, la testimonianza epica è venuta dal capolavoro di Picasso dedicato alle vittime del bombardamento di Guernica: non a una rappresentazione ma a una visione quasi astratta. Se l’epopea, per agire al di là dei singoli casi umani, più che ai documenti deve affidarsi alla leggenda nata intorno a loro, essa fatica a profilarsi nell’era dominata dall’informazione televisiva agente in tempo reale, che non lascia spiraglio all’attività dell’immaginazione. Il primo effetto lo si è visto nella guerra del Vietnam, l’ultima epopea che abbia riguardato l’Occidente. Le canzoni di Joan Baez e di Bob Dylan l’hanno fissata nella memoria collettiva. Ma si tratta, insieme al ’68, di un’epopea dimezzata. Essa non è sopravvissuta nei figli di quella generazione ipnotizzati dal teleschermo, ai quali quelle canzoni (all’origine in grado di mobilitare masse di giovani) risultano semplicemente patetiche.