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Non era un gioco

Quasi d’improvviso gli umani iniziarono a considerare le vette delle Alpi non più semplicemente come luoghi ove cogliere visivamente lunghe distanze, ove dilettarsi nella contemplazione, ove accedere per giungere oltre. Lasciarono segni, a volte indecifrabili e a volte come mappe abbozzate piuttosto che impressioni astrali e i suoi intrinseci ritmi. Forse mai intimoriti, ma di sicuro pervasi di riverenza e stupore. Questa natura, tanto generosa quanto severa, e sempre meravigliosa: si avvalsero infatti delle sue risorse apparentemente infinite, tanto da esserne essa stessa il riferimento caratteriale dell’abitare. Eppure da oltre cent’anni cominciarono a considerarla come qualcosa da sfruttare. Non bastarono i graditi alpeggi con arroccamenti in pietra e ampi spazi per greggi e mandrie, vollero poi abbarbicarsi i pendii per regalarsi la tanto ambita villeggiatura, in quei momenti residuali scaturiti da vite sempre più frenetiche. Non bastarono sentieri su versanti e cime dove condividere picnic in comitiva, vollero ingombrarli di impianti di risalita per ogni stagione, con tanto di ristoranti e dormitori. Vollero renderli accessibili a vari veicoli striando i pendii di cemento e asfalto. Vollero scavare e modificare consistentemente ghiacciai e rocce per sopperire a problematiche che loro crearono nelle valli civilizzate. L’illusione degli interventi a monte cambiarono irreversibilmente la fonte delle condizioni risolutive. Abbiamo però ancora un buon margine di azione per porre rimedio all’aver reso troppe montagne dei parchi da gioco: ponendo fine all’economia sfrenata, accorgendoci che quel che c’è è già troppo, ritrovando la giusta dimensione all’umana distorsione di espandersi e riconoscendo una sana sobrietà come via da perseguire.

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