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Democrazia, patrimonio della totalità sociale

Si può ben dire che la democrazia è la voce che uno ha dentro e che vuole uscire per esprimersi sui rapporti che lui individuo e gli altri mantengono con le cose. In questo senso la democrazia è radicale perché coincide con la vita immessa nel contesto sociale. Poi si sa che questa voce incontra il percorso delle procedure, cioè delle strutture attraverso la quali si arriva a dare corpo alla politica. Oppure la voce ignora del tutto il percorso della partecipazione nei crismi costituiti del “politicamente corretto”. Resistendo la voce radicale, secondo l’etimo del concetto “democrazia”, resiste quel volere che in ambito collettivo dovrebbe essere emesso indistintamente da tutti.

Due pensatori francesi – guarda caso del Paese dove si decapitò l’Ancien Régime – ci offrono qualche lume sul tema. Secondo Jacques Rancière la democrazia è una struttura archicentrica segnata da due legami: a) il fondamento normativo istituzionale; b) lo scivolamento verso il caos, il disordine, l’anarchia. Le analogie di questo movimento antagonistico suscitano tanti esempi. Si potrebbe fare quello del modo di alimentarsi, per cui l’individuo si ciba secondo norme sociali, nel contempo è spinto a trasgredire nella sua alimentazione. È successo che nella Rivoluzione francese avviene un taglio netto col passato: a) viene ghigliottinato il monarca, il comando della politica; b) destituita ogni sovranità, il popolo non coincide più con sé stesso; c) si presenta il fantasma del totalitarismo come ripresa della sovranità. Claude Lefort dice che la società democratica dà scacco a un organismo che la riassume e rappresenta armonicamente. Il cosiddetto popolo esercita, attivamente e passivamente, un potere democratico mai sostanziale, mai identitario, mancante di comando: si ha la sensazione di una sovranità che non c’è.

A questo punto è facile individuare l’humus dei vari e innumerevoli sovranismi che la storia ci ha donato fino ai nostri giorni. La democrazia è pertanto un luogo del potere senza fondamento, senza un inizio di comando: essa si rifa da sé costantemente perché manca il sovrano. Senza qui entrare nel merito di interpretazioni antropologiche e psicologiche, che rivelano la presenza mai annullata definitivamente che è quella del sovrano superiore, del buon Padre che è nei cieli, il dibattito oggi intorno alla democrazia, a prescindere dai contenuti di vario tenore, si preoccupa di due aspetti: a) come riempire il discorso democratico con le esigenze più disparate, visto il riemergere dell’aporia del concetto che intende dare voce proprio a tutti; b) come regolare i modi democratici, visto il manifestarsi di modalità “scorrette”, malcontento sociale, disordini, rivolte.

Scrivevo a un ideologo ticinese del liberalismo che “la democrazia – che è tra parentesi anche un’utopia – è tendenzialmente totalizzante nel senso che limita il soggetto singolo nel soggetto collettivo”. Ma non è da intendere come nei testi di Karl Popper, che sono una dottrina del liberismo, dove lui taccia di totalitarismo i tre grandi Platone, Hegel e Marx: stando dalla parte della democrazia di pochi, che è oligarchia, il timore popperiano è che il potere si allarghi alla totalità sociale. La democrazia invece si rifonda continuamente su un sentore di uguaglianza senza muri nei confronti degli altri: da qui la sua tendenza totalizzante. Bisognerebbe abbandonare le figure caricaturali del passato, oltrepassare l’uguaglianza formale e il sociologismo astratto, per conoscere la condizione dell’altro: minima base di intesa democratica.

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