I dibattiti

Quando il pedagogichese offusca la scuola

(Ti-Press)

Poco più di cinque secoli fa Machiavelli scriveva, nella dedica a Lorenzo de’ Medici della sua opera più famosa (‘Il Principe’), di non averla “ornata né ripiena di clausole ample, o di parole ampullose e magnifiche...”. Intendeva significare con ciò che il suo contributo, contrariamente a quello di coloro che dipingevano governi ideali, non solo si sarebbe fondato sulla “verità effettuale della cosa”, ma avrebbe anche espresso un’analisi delle esperienze fattuali in termini chiari e argomentati.

Mi si consenta ora, con un accostamento contrastivo, di avvicinare il principio machiavelliano alla proliferazione di testi criptici con i quali le scienze dell’educazione stanno modificando il panorama linguistico-testuale, nonché le fondamenta concettuali della nostra scuola. Porto quindi provocatoriamente lo sguardo dal pensiero politico al pensiero educativo.

La lezione di Machiavelli non sembra essere stata recepita nella recente retorica pedagogica, neppure quando si tratti di documenti di interesse pubblico (riforme scolastiche, piani di studio e di formazione...). In Ticino le prime avvisaglie di certa farraginosità linguistico-concettuale si sono avute con il progetto denominato ‘La scuola che verrà’, un progetto di riforma elaborato da un gruppo di lavoro ad hoc designato dalla Divisione della scuola del Decs. Le reazioni fra gli insegnanti non furono entusiastiche e tale riforma (sia pure per ragioni perlomeno discutibili) fu successivamente bocciata in votazione popolare.

Altri e ben più allarmanti esempi di “clausole ample e parole ampullose” li troviamo alla lettura del ‘Piano di studi della scuola dell’obbligo ticinese’, un testo già una volta revisionato (eufemisticamente ‘perfezionato’), che rimane tuttavia di difficile decifrazione per qualsiasi genitore voglia capire che cosa studia, e che cosa impara, il proprio figlio a scuola. Un testo manierato, tutto speso nella celebrazione della didattica per competenze, che è idolo indiscusso degli attuali approcci all’insegnamento e all’apprendimento. Ne trascelgo un piccolo esempio fra le decine e decine che si potrebbero citare: “La competenza si offre inoltre come paradigma didattico appropriato a interpretare la realtà e ad agire su di essa, sostenendo l’individuo, che la conquista progressivamente, a esercitare un controllo attivo sui vari meccanismi di fruizione, comprensione e partecipazione alla vita culturale, ambientale, politica, sociale ed economica” (‘PdS’, p.13). Come si sarà intuito già dall’andamento giustappositivo di questo minimo estratto, si tratta di un documento dall’evidente pretenzione, che come altri di questo genere unisce l’ambizione alla genericità e alla pletora espositiva (266 pp.).

In questi anni il più che giustificato desiderio di riforma tende purtroppo a esprimersi in formule tortuose. Il politico (ma anche il cittadino) legga per esempio la bozza di nuovo ‘Piano quadro degli studi’ (‘Pqs’) per le scuole di maturità. Distribuito agli insegnanti in una versione indegnamente tradotta dal tedesco, pone anch’esso al centro il concetto di competenza e vi si trovano formulazioni astruse che rendono di difficile comprensione i concetti. E ancora: si veda la riforma recentemente promossa dalla Sefri (Segreteria di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione) nelle scuole professionali commerciali, dove in forza di “competenze operative” scompaiono le discipline di studio. L’attenzione monotematica alle competenze è confermata dal recente testo edito gratuitamente dalla Divisione della scuola, con titolo ‘La valutazione per competenze. Dalla teoria alla pratica’. Chi non teme una lettura poco amena (ma allietata da schemi di varia foggia e da colorate faccine), lo cerchi in internet. Vi troverà le stesse marche concettuali cui si è fatto cenno in precedenza e fra gli autori scoprirà la medesima persona che è capoprogetto responsabile del perfezionamento del Piano di studi, esperto di scienze dell’educazione nella scuola dell’obbligo, professore Dfa/Supsi, rappresentante designato dalla Divisione della scuola nel gruppo di accompagnamento della sperimentazione per il superamento dei ‘livelli’. Perbacco, perbacco!

Si direbbe che di scuola e di senso educativo non si possa più parlare in modo coinvolgente ed efficace. Eppure, richiamando per converso un esempio di prosa cristallina, la scuola ha ricevuto più impulsi da un solo paragrafo di ‘Lettere a una professoressa’ di don Lorenzo Milani, che dalle centinaia di pagine prodotte dai pedagogisti nostrani (è peraltro curioso che il centenario della nascita del sacerdote e maestro di Barbiana – caduto proprio qualche mese fa – non sia stato accompagnato da particolari iniziative della nostra scuola).

Le forme linguistiche e testuali non sono mai neutre! Negli ultimi decenni, troppo spesso il contributo delle scienze pedagogiche è confluito in ampie discettazioni para-didattiche, difettando invece nella riflessione sul senso profondo dello sviluppo cognitivo e sul venir meno di un canone scolastico culturale.

Tutto questo in un tempo nel quale la scuola stessa fatica a ritrovare un’identità educativa, confrontata come è con agenzie formative più suasorie, con una concezione ‘liquida’ del sapere (un “sapere per agire” più che un “sapere per capire”), con uno sviluppo impressionante delle forme digitali e delle processazioni intellettive che ad esse si collegano (presto saremo alle prese, anche scolasticamente, con l’intelligenza artificiale), con la superficialità banalizzante dei social network, con l’affermazione di una virtualità relazionale. È una scuola che, piegata alla neolingua della competenza, rischia di trascurare il senso emancipatore della conoscenza nella formazione della persona. E questo proprio mentre il disagio esistenziale dei giovani ha raggiunto punte mai viste in precedenza e la prospettiva scolastica si riduce a vaga promessa di un futuro cangiante.

Quali sono dunque i rischi del pedagogichese? Il principale è quello di una nebulosa scientista che in verità offusca i veri problemi della scuola.

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