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Per qualche ostaggio di meno

Qualche giorno dopo aver invaso l’ambasciata americana a Teheran e preso in ostaggio i suoi settantasei diplomatici, funzionari e agenti, gli “studenti della linea dell’Imam” liberarono tredici di loro, gli afroamericani e le donne non considerate spie. I khomeinisti s’illudevano di suscitare così la simpatia delle masse di colore e gli “oppressi e d’accordo con noi” fra la popolazione degli Stati Uniti.

Gli eventi storici, anche i più spettacolari, sono spesso anche il frutto dell’improvvisazione o del caso e in quei giorni del novembre 1979 il regime rivoluzionario era ancora lungi dall’aver stabilizzato il suo potere. Spogliato del suo intento velleitario, questo gesto “umanitario” assunse comunque agli occhi degli osservatori e potenziali intermediari il valore di una prova di “capacità negoziale” dei sequestratori. Di fronte si aveva qualcuno che, manipolato o meno dalla “guida suprema” Khomeini, era pronto a dialogare, seppure alle sue condizioni (la consegna del deposto scià). Se delle ragioni umanitarie giustificavano la liberazione di alcuni ostaggi, altre ragioni o accordi potevano provocare la fine della prigionia degli altri.

I guerriglieri di Hamas, nella loro scellerata cavalcata fra i kibbutz oltre la frontiera di Gaza, hanno rapito più di 220 persone, senza alcuna distinzione di età, sesso, appartenenza nazionale o ruolo. Liberandone alcune per comprensibili regioni umanitarie, come fanno in questi giorni, mettono al centro del confronto la questione ostaggi e ritardano inevitabilmente l’operazione militare tabula rasa degli israeliani. Ma non solo: aggiungono ai già non pochi risultati ottenuti (in primis, la ricollocazione del problema palestinese al centro di uno scambio diplomatico che da Trump in poi ne stava facendo bellamente astrazione) anche quello di ottenere per forza lo statuto di interlocutore, possibilmente disponibile per un dialogo di più ampia portata.

La “politica degli ostaggi”, inaugurata spettacolarmente dal regime khomeinista e praticata ormai diffusamente da altri autocrati e terroristi nel mondo, ci ha tuttavia insegnato che tali azioni non risolvono le guerre, non sono strategiche ma tattiche. Come tale necessitano di un preciso ordine di marcia, dove il dare e l’avere, il concedere e l’ottenere, siano chiari in ogni fase, con l’obiettivo di creare le premesse per un dialogo e possibilmente un accordo finale. Gli ostaggi in mano ad Hamas, come le sanzioni economiche internazionali che, per altri versi, rientrano nel confronto attualmente in atto nel vicino oriente bloccando la politica della Repubblica islamica, sono strumenti d’intimidazione che vanno usati accortamente e compresi con molta attenzione. Forse di più che le dichiarazioni di odio reciproco dei dirigenti di due popoli ormai destinati a convivere.

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