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Natura e limiti della libertà

Il pensiero politico che affonda le sue radici nella libertà non può fare a meno di simboleggiare il dinamismo del divenire, lo sviluppo delle potenzialità umane, la possibilità di dubitare, sbagliare e sperimentare contro ogni pretesa di divieti arbitrari e generalizzati o di principi superiori. Il vero problema è come stabilire la natura e i limiti di questa libertà.

La tesi, secondo cui lo Stato deve avere soltanto un ruolo secondario e intervenire il meno possibile nell’ambito dell'autonomia individuale, sembra piuttosto fragile alla luce delle “distorsioni” che contraddistinguono l’epoca attuale: le guerre nel mondo sono diffuse; la problematica energetica si è acuita; i problemi ambientali sono incombenti; i fenomeni migratori incombono con un’intensità senza precedenti; l’ascesa di Internet e ora dell’Intelligenza Artificiale invade sempre più l’area di privacy dei cittadini; il business delle grandi piattaforme multinazionali privilegia il sensazionalismo su qualsiasi tipo di informazione; e altro ancora.

Se da una parte è del tutto necessario sburocratizzare lo Stato e ridurre al minimo l’enorme quantità di leggi e di regolamenti che oggi condizionano la vita degli individui e delle imprese, dall’altra è pur necessario stabilire una soglia minima di regole comuni per l’esercizio dello Stato di diritto. Il problema è quello di riuscire a conciliare alcuni principi irrinunciabili, quali la libertà e la libera concorrenza, con l’etica della responsabilità sociale, al fine di evitare le ingiustizie, l’enorme concentrazione della ricchezza in poche mani, i poteri occulti, gli squilibri istituzionali, gli accordi cartellari e monopolistici. Tutti i classici del liberalismo hanno sottolineato il fatto che le libertà sono sempre confrontate con altre libertà: l’economista britannico John Stuart Mill (1806-1873) affermava che “l’individuo è sovrano, ma a patto di non recare danno alla società”; il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804) riteneva che “l’arbitrio di ciascuno può coesistere con l’arbitrio degli altri, secondo una legge universale di libertà”.

L’età d’oro del progetto occidentale è stata marcata da stabilità e giustizia sociale, dal trionfo delle democrazie liberali, da un’integrazione virtuosa tra Stato e mercato e da un progressivo superamento, nella coscienza collettiva, degli egoismi nazionali. Ma, a partire dagli anni Ottanta del Ventesimo secolo, le sfide della globalizzazione hanno messo in crisi questo modello, impoverendo le classi medie, strette fra un’élite globale di plutocrati sempre più ricchi e le classi medie dei Paesi emergenti che reclamano il posto che compete loro sulla scena globale. Grazie all’evoluzione dei mercati finanziari, è avvenuta una concentrazione impressionante di ricchezza finanziaria in poche mani. Negli Usa, ad esempio, il 10% dei più abbienti detiene l’87% degli attivi finanziari.

Ipertrofia dello Stato e monopoli sono storicamente nemici della libertà. Luigi Einaudi (1874-1961), nelle sue ‘Lezioni di politica sociale’ del 1944, sosteneva delle tesi ancora valide oggi: uno dei compiti principali dello Stato liberale dev’essere rivolto alla lotta ai monopoli, perché solo all’interno delle regole dello Stato di diritto, economia di mercato e libera concorrenza possono funzionare da fattori di progresso. Tesi ribadita dal filosofo di Harvard John Rawls (1921-2002), secondo cui “una società è bene ordinata quando non soltanto è tesa a promuovere il benessere dei propri membri, ma è anche regolata in modo effettivo da una concezione pubblica della giustizia”.

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