I dibattiti

Il futuro dopo la neve in Ticino

Parlare di destagionalizzazione è indispensabile ma bisogna cambiare strategia. In primo luogo risolvere il problema alloggi e sfruttare la tecnologia

Ronny Bianchi
(Archivio Ti-Press)

Per il secondo anno consecutivo le stazioni di sci ticinesi hanno dovuto far fronte a un innevamento insufficiente. Un altro anno in rosso, come ce ne sono stati già diversi. Durante questi mesi si è discusso molto sul futuro di queste stazioni: chiusura definitiva, innevamento artificiale, diversificazione dell’offerta, destagionalizzazione. Prima di affrontare il futuro è però necessario puntualizzare alcuni elementi.

Negli ultimi 20 anni l’ente pubblico ha immesso in queste stazioni oltre 200 milioni di franchi. Contrariamente a quanto si continua a sostenere e come evidenziato dallo studio della ‘Grischconsulta’, l’indotto non è positivo. Gli esperti del cambiamento climatico, da un paio di decenni, sostengono che le stazioni di sci al di sotto dei 1’700 metri non hanno futuro. Certo: ci potranno essere ancora anni con nevicate sufficienti, ma saranno sempre più rari. Le ultime due stagioni hanno mostrato che assieme all’aumento della temperatura stanno drasticamente calando anche le precipitazioni e dunque le riserve d’acqua. Gli investimenti milionari sono stati un fallimento (Airolo) o sono in gravi difficoltà (Campra).

Date queste premesse, parlare di diversificazione e di destagionalizzazione è indispensabile ma bisogna farlo con molta prudenza. Il settore turistico è quello con il valore aggiunto per addetto più basso e quindi qualsiasi investimento deve essere valutato con attenzione. Questo non significa che non sia importante per le zone periferiche, ma ci fa capire che se si vuole immaginare un futuro bisogna modificare radicalmente le strategie fin qui adottate. È impensabile competere con i grandi centri turistici alpini svizzeri, ma al contempo non si possono fare proposte estemporanee che non siano ponderate.

Una riflessione radicale sulla politica economica regionale è fondamentale. In primo luogo, bisogna risolvere il problema degli alloggi, perché il turismo di giornata è insufficiente. Ma che alloggi vogliamo? Pensare a strutture sovradimensionate è un rischio eccessivo. Una soluzione potrebbe essere quella di mettere in rete quanto già esiste, modernizzandolo, e creare altre piccole realtà adatte a un turismo "alternativo". Attirare il turista classico è fuori discussione perché oggi con importi accessibili a molti è possibile fare una settimana di vacanza in Marocco, in Spagna o in Trentino a prezzi inferiori e con offerte superiori a quanto sarebbe proponibile nelle nostre zone periferiche. Oggi però esiste un turismo che ricerca qualcosa di diverso rispetto alle destinazioni classiche, un turismo di qualità che ricerca il contatto con la natura. Certo non è facile, ma nemmeno impossibile ottenere dei risultati a condizione però di avere una visione di lungo periodo. Il Parc Adula era una possibilità, ma è stato bocciato. Comunque, la direzione non può essere che questa, anche se in forma necessariamente diversa. Siccome anche l’agricoltura dovrà affrontare le conseguenze del cambiamento climatico (se le precipitazioni non saranno abbondanti nei prossimi mesi, cosa mangeranno centinaia di mucche questa estate sugli alpeggi?), una collaborazione tra i due settori sarebbe auspicabile, sempre nella direzione di una maggiore qualità.

Evidentemente la sfida è ardua e quindi diventa necessario implementare strategie diversificate e la migliore – a me sembra – è quella di attirare nuovi residenti e di creare strutture lavorative possibili anche in periferia grazie alle nuove tecnologie. Ma per fare questo bisogna garantire servizi efficienti e offerte interessanti. Più facile a dirsi che a farsi, ma iniziando subito programmando sul lungo periodo, passo dopo passo i risultati potrebbero essere sorprendenti. La base per questa strada è però un cambiamento di mentalità di tutti gli attori coinvolti e questo è forse il passo più importante.

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