I dibattiti

Retorica di guerra

Tra novelli Adenauer e interessi Usa, il conflitto in Ucraina rischia di essere una piccola Waterloo per la credibilità della narrazione giornalistica

(Keystone)
5 aprile 2022
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Diciamoci la verità: nel granitico "blocco occidentale" nessuna persona (al netto di qualche sciroccato da ricovero coatto) è disposta a morire davvero per i fratelli ucraini, anzi nessuno sembra pronto a qualche sacrificio non simbolico, nemmeno a livello del pieno di benzina. Questa constatazione, confermata dai rilevamenti di cui si abbia notizia, dimostra quanto poco la stampa e la politica riescano a promuovere soprassalti etici, ma neppure opinione e sdegno autentici che vadano al di là di qualche generica riprovazione o di qualche insulto, e di una solidarietà locale che costa poco o nulla, salvo la piccola fatica di svuotare i solai dai vestiti smessi, o di dare provvisori posti letto in qualche appartamento sfitto.

Eppure da settimane, la stampa e l’audiovisivo ci assordano e ci ammorbano con uno stucchevole linguaggio retorico, ansiogeno e allarmistico, prospettandoci le peggio cose se non faremo qualcosa per difendere l’Ucraina e gli ucraini, e con essi i sacrosanti valori dell’Occidente; addirittura si tenta di scuotere l’uditorio dicendo, beninteso senza prove, che l’invasione russa è prodromica ad altre e più ampie invasioni, che puntualmente ci coinvolgeranno mettendo in discussione tutte le nostre belle libertà, le nostre comode abitudini e i nostri grassi fastidi. Anche da noi, con un certo sprezzo del ridicolo ma nella saggia indifferenza generale, si parla di attrezzare rifugi e di fare scorte alimentari, di guerra chimica o financo atomica, di conflitto planetario, prospettando il peggio e minimizzando il resto; noi baldi Elveti invece andiamo avanti come sempre, più preoccupati del prezzo della benzina e delle piccole gabole di ogni giorno che non della orrenda mattanza in corso o dei presunti tremendi rischi, indignandoci un po’ ai Tg delle 20 e riprendendo a parlare delle solite quotidiane faccende mezz’ora dopo.

È una sorta di piccola Waterloo per la credibilità della narrazione giornalistica, soprattutto di quella italofona che si distingue – rispetto a quanto si fa e si dice al di là delle Alpi – per toni pre-bellici a volte rabbiosamente ideologici; modalità che tentano di scaldare il pubblico al calor bianco più che di spiegare e di aiutare a capire. Spiegare, già: adesso gli "spiegazionisti" vengono precipitati d’ufficio nel purgatorio dei "giustificazionisti" e dei "neneisti", e da lì senza processo nell’inferno dei filo-putiniani. I tentativi di taluni di opporsi a questa sommaria esecuzione etica finiscono nel nulla, ammutoliti da aggressioni verbali semplificatorie senza controllo; i talk hanno ormai lo stesso aristocratico aplomb e la stessa britannica sobrietà di combattimenti di cani o di mud wrestling. I commentatori più scatenati sono quelli, insospettabili, che fino a tre mesi fa pensosamente criticavano la deriva ignorante e semplificatoria provocata dai social, e si appellavano alla capacità di argomentare ricordando che questioni complesse non hanno quasi mai soluzioni semplici; e ora sdoganano sui media paludati, e senza vergogna, lo stesso binario e criticato argomentare. Per non parlare di quelli che diventano credibili ed "esperti" solo per il fatto di essere giornalisti e/o ucraini, o dissidenti russi. I commentatori più scatenati hanno le tempie grigie, quindi non sono più arruolabili, e vogliono quindi la solita guerra per procura, menare le mani per interposta persona; ce n’è addirittura uno che, dagli Stati Uniti e con faccia da mastino, si vanta di aver fatto tre guerre e che furono tutte delle "belle esperienze". Altri infine (per tutti, Michele Serra) parlano d’altro, confidando in un futuro più rispettoso dell’intelligenza.

Accanto a loro, anche i politici (specie quelli in cerca di rielezione o con una "sanguinosa" mid-term in agguato) cavalcano le più becere modalità da bar, con insulto e rutto libero; in prima linea il presidente Usa, che sorprende anche i suoi collaboratori con tremebonde esternazioni che lasciano attoniti, provenienti da cotanto scranno. Questa escalation verbale ha però una sua utilità: rende difficile ogni ripensamento agli alleati e serve molto agli unici vincitori di questo conflitto assurdo nelle sue cause, nelle sue modalità e nella sua cieca violenza: a coloro che aspirano a essere il nostro faro nella notte, i paterni referenti, cioè appunto gli americani. Che in un lampo, con qualche smandrappato pretesto etico e senza doversi sporcare nemmeno gli alluci, si sono procurati acritici vassalli (gli europei), ottimi clienti per le loro armi (una pacchia, il riarmo europeo), concorrenti in meno sul piano energetico (la Russia; e qui anche gli arabi gongolano silenziosamente tra le dune) e su quello economico (la povera Europa), con la prospettiva poi di un Piano Marshall made in Usa in Ucraina. Niente di meglio che lucrare a tutti i livelli su una guerra fatta dagli altri, ma in cui si è riusciti a ritagliarsi una sorta di ruolo di padre nobile, di alfiere di alti valori, e di fornitore. Resterà da capire quanto le nuove forme di comunicazione, alle quali si sono accodate le modalità tradizionali del dare notizie, abbiano contribuito a modificare oltre al linguaggio la sostanza stessa della politica, e quindi la gestione dei problemi e le soluzioni; il dubbio in effetti è che la narrazione giornalistica non sia purtroppo solo un effetto collaterale, lievemente folcloristico, ma una concausa.

Sempre in politica, abbiamo scoperto dalla nostra stampa di avere in Consiglio federale nientedimeno che un novello Adenauer: per redimere Cassis dalla sua imbarazzante impalpabilità, sono infatti bastate due lacrime in favor di camera in un campo profughi polacco e una comparsata in piazza ad ascoltare il presidente ucraino, e tutto è finito nel dimenticatoio, dal silenzio sulla tragedia dei profughi afghani e siriani (che non hanno diritto a presidenziali lacrimazioni, loro), agli sgarbi anch’essi illacrimati ai profughi palestinesi, alla figuraccia fatta in Zambia, alla tentennante gestione dei rapporti internazionali. Insomma, scordiamoci il passato, tutto dimenticato, ed ecco uno statista bell’e pronto per una rielezione. Difficile poi prevedere l’impatto della neo-neutralità di cui lui e i suoi colleghi si sono fatti alfieri, al di là della fine della bella Svizzera dei "buoni uffici".

La verità dei fatti è una delle vittime di questa guerra, e con essa anche un po’ dell’etica e della decenza giornalistiche. E siamo qui tra un profluvio di notizie in cui qualsiasi cosa trova ideologico sdoganamento senza controllo, il tentativo di suscitare (senza troppo successo) la paura della gente per il proprio futuro, e la retorica senza vergogna; in questo proscenio urlante si consuma – come fosse un mero inessenziale sfondo – un dramma invece autentico e allucinante, in cui gente vera ci lascia la pelle, vittima dei russi invasori ma anche un po’ del fuoco amico e della solidarietà pelosa.

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