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La diversità fa paura, l’ignoranza di più

(Keystone)

Il corpo umano e soprattutto la nostra mente lavorano come una macchina: ogni parte del cervello serve a una precisa funzione e a uno scopo. Ogni parte del nostro corpo è funzionale alla nostra sopravvivenza e viviamo seguendo ciò per cui siamo stati programmati. Ma chi è che ci programma? Chi è il nostro programmatore? La società. Ed è la società che ci impone, in un certo senso, certe visioni, idee, ma soprattutto luoghi comuni. E non riusciamo a scrollarceli di dosso.
I luoghi comuni sono il nostro pane quotidiano, viviamo di loro e crediamo di avere la verità in mano grazie a loro. La domanda che tutti fanno è la seguente: “Come mai sei venuto in Europa?” ed è la domanda più difficile a cui rispondere perché non bastano 5 minuti per motivare le nostre ragioni. Ma la gente si aspetta che tu risponda semplicemente “per motivi economici”. Chi sceglie di emigrare non lo sceglie mai per un unico motivo ma per una serie di motivazioni che ai più non sarà chiara. La verità assoluta è che quando si decide di emigrare è per trovare nuove opportunità e costruirsi una nuova vita. Comprendere la diversità e gestirla in maniera inclusiva. Ma le difficoltà da superare non sono poche. Si è notato, per esempio, come la diversità culturale può rappresentare una vera e propria barriera all’introduzione d’innovazioni, all’implementazione di nuove tecnologie, ma soprattutto può avere un impatto negativo sul livello di coesione interna dei lavoratori, può determinare incomprensione e frustrazione tra i manager fino a bloccare ogni comunicazione tra persone e divisioni appartenenti ad aree geografiche e culturali differenti.
“La diversità fa paura”. Per sconfiggerla, quindi, è necessario conoscerla. Il fenomeno del conflitto tra we-group/out-group determina il pregiudizio e la costruzione degli stereotipi. Lo straniero può essere ben accolto se viene da un contesto ricco, interessante, affascinante anche se diverso dal nostro. L’immigrato, invece, viene considerato un individuo senza status, senza identità, relegato a un livello basso nella scala sociale. Lo straniero spesso. Lo straniero viene percepito come un’ombra che turba la tranquillità del we-group e in questo caso il pregiudizio nei suoi confronti sarà negativo. Di conseguenza, avremo giudizi favorevoli per i francesi, i tedeschi, gli americani, gli inglesi e negativi per gli albanesi, gli africani, gli zingari, i tunisini ecc. L’etnico diventa l’altro, il diverso diventa colui che appartiene a un gruppo culturale lontano dal nostro.
In una società sempre più multiculturale e multietnica il rapporto tra appartenenze di gruppo, le percezioni e i comportamenti concreti costituiscono un problema che la psicologia sociale può contribuire a comprendere. Una delle possibili soluzioni per ridurre le tensioni è il contatto con gruppi o persone provenienti da altri contesti culturali, poiché è solo attraverso la conoscenza che possiamo acquisire informazioni che di fatto riducono il pregiudizio e la conflittualità. Gordon Willard Allport, noto psicologo della personalità e dei tratti, aveva evidenziato come la vicinanza e l’integrazione tra gruppi diversi possa favorire la comprensione reciproca, diminuire i pregiudizi e allentare i contrasti, anche se l’effetto non è affatto scontato. La familiarità con persone che vengono da altri contesti elimina almeno una parte della paura del diverso riducendo l’ostilità e la diffidenza. Il modo migliore per salvaguardare le differenze sarebbe proprio quello di lasciare che tali differenze sussistano. Conoscere, non ignorare: è questo il segreto.

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