I dibattiti

Il pensiero unico e i suoi ermeneuti

La società odierna è variegata e distribuita in luoghi geopolitici che conoscono condizioni sociali simili e a volte molto differenti. C'è chi vede il mondo intero fatto da individui singoli e indipendenti nel loro esistere, chi invece vede possibile l’affratellamento universale dei mortali. Due visioni non certo conciliabili. Nei testi letterari, filosofici, sociologici si separa la società in due: la moltitudine che ha una conoscenza minima funzionale e scarsissimo potere; l’élite che è a contatto con la scienza e con l’organizzazione del potere. Nell’epoca detta postmoderna il pensiero unico è indicato nel generalizzarsi del comportamento pragmatico che supporta la produzione in generale, produzione di beni, mezzi, servizi, saperi, stili culturali, disposizioni sociali. Il pensiero unico si rinnova dentro la produzione continua e in continua crescita, la sua rigenerazione è meccanica e a tempo indeterminato. Questo pensiero è ricondotto al motore stesso dell’economia di mercato, cioè al liberismo economico come condizione dominante.
È con l’ultima mondializzazione dell’economia, detta globalizzazione, che il pensiero unico si incarna nella crescita economica, ossia nella tendenza illimitata di produrre merci come valore di scambio. La critica dice che lo scambio di merci nelle società avanzate decide la vita in guisa totale, e non è una novità che pensatori, sociologi, antropologi, psicoanalisti, politologi, massmediologi e talvolta perfino scienziati rilevano queste equivalenze prodotte dall’anima mercatistica, che opera il calcolo preposto e inviolato. La vita sociale diventa sempre più un’appendice passiva della dinamica dell’economia contemporanea. Massimo Bontempelli definisce il capitalismo come fenomeno di “dinamica autoriproduttiva come dinamica di derealizzazione antropologica”. Il realismo positivistico che innerva le attività produttive e vitali è il maggior fattore che disegna quale naturale la società presente e di conseguenza l’insensatezza di una volontà trasformativa della stessa. Il presente che si ripete, buttando in continuazione merci sul mercato, è lo spazio dell’individuo astratto che si arrangia contrattualmente e singolarmente, che è lontano dalla evoluzione cosciente del genere umano e delle condizioni della comunità globale. Scrive Diego Fusaro: “Gli uomini scambiano, accumulano, producono, sacrificano le loro vite sull’altare della valorizzazione del valore e del produttivismo più febbrile, senza sapere perché lo fanno”.
In modo affatto inedito il concetto di pensiero unico viene usato dall’opinionista Alberto Siccardi. L’uso del concetto risulta rovesciato. Egli lo attribuisce – se ho capito bene – al discorso critico che fanno gli ecologisti del terzo millennio. La reazione dell’imprenditore locale che allerta l’opinione pubblica è direttamente comprensibile. Primo, perché la proposta ecologista tocca violentemente il modo sconsiderato di produrre ricchezza che la produzione storica ci ha consegnato (nemmeno i marxisti novecenteschi ne avevano avvertito l’orrenda insostenibilità). Secondo, perché il pensiero ecologista non può che essere radicale al cospetto dello sviluppo umano che finora non ha badato alla finitezza fisica della biosfera; in questo senso l’uso del concetto di pensiero unico è proprio unico in quanto è la prima volta nella storia dell’umanità che questa riflessione segna le coscienze. Terzo, perché il timore di chi opera in campo economico non esclude che il pensiero ecologista che rappresenta la minoranza possa in prospettiva convincere la maggioranza.
Ma l’affaire à suivre è davvero drammatico, per prendere un aggettivo ancora dolce, e ciò in ragione della forza d’inerzia della crescita antropica, con tutti i mezzi e le infrastrutture che già si conoscono, della quale tendenza siamo, più o meno, volenti o nolenti, bene o male intenzionati, tutti partecipanti. Forse ha ragione Serge Latouche quando dice che “la servitù dei sudditi è più volontaria che mai”.

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