Il dibattito

Un mondo diverso?

Ho esitato parecchio prima di scrivere queste righe che potrebbero apparire poco appropriate al momento attuale

Ho esitato parecchio prima di scrivere queste righe che potrebbero apparire poco appropriate al momento attuale. Quanto dirò non vuole certo sminuire gli sforzi che il governo ticinese ha fatto e sta facendo dal 21 marzo scorso con l’interruzione delle attività economiche non essenziali. Altri Cantoni avrebbero potuto scegliere questa via. Ginevra, dove abito, l’aveva fatto salvo, dopo qualche giorno, accodarsi all’ordinanza del Consiglio federale. Tuttavia, proprio l’urgenza del momento non deve far dimenticare l’emergenza climatica e sociale crescente nella quale viviamo da tempo. Non deve far dimenticare l’emergenza nella quale ci ritroveremo dopo, se non interverranno cambiamenti rapidi e profondi. “Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato”, ha detto recentemente papa Francesco. Rischiamo di proseguire imperterriti; inoltre a suon di ragion di Stato e di ragione economica. Rischiamo di essere chiamati a chiudere la bocca durante un lungo periodo di crisi in nome di un “bene comune” favorevole a pochi.

Catastrofi e responsabilità umane

Esistono fenomeni naturali pericolosi e potenti, ma se diventano catastrofe è per responsabilità umane. Da tempo la comunità scientifica sul piano planetario ha allertato il mondo politico sulle minacce di pandemie dovute a virus. Eppure, praticamente tutti i Paesi sono risultati impreparati a gestire la situazione odierna. Non è però solo che non si è voluto prendere sul serio quanto da anni era prevedibile. Per troppe settimane, in un momento di particolare disunione tra gli Stati europei, si è assistito ai goffi movimenti di armate Brancaleone. Perché si è messo così tanto a reagire? “Si tratta, a mio avviso, di una questione eminentemente politica. È da gennaio che lavoriamo su tali questioni ed eravamo in grado di prevedere ciò sarebbe accaduto. Sulla base di ciò che è successo a Wuhan, potevamo vedere in effetti che il numero di persone infettate stava già seguendo una curva quasi perfettamente esponenziale” affermava alcuni giorni fa Marcel Salathé, direttore del laboratorio di epidemiologia digitale di Campus Biotech a Ginevra e professore al Politecnico di Losanna, intervistato dal quotidiano “Le Temps” (26 marzo 2020). Per fortuna vi erano ancora scorte di mascherine scadute acquistate per la pandemia del 2009. In qualche Paese, si era continuato per un certo tempo a rinnovare gli stock e anche a produrre quei beni in loco. Poi i costi, si sa. A Plaintel in Bretagna, per esempio, meno di due anni fa un’impresa fabbricava milioni di mascherine. I salariati erano 260. Poi nel settembre del 2018 il gruppo statunitense Honeywell è partito con macchine e know-how pour un sito delocalizzato in Tunisia.


Quanti rischiano di essere dimenticati?

Appunto i costi. L’imperativo è stato per decenni risparmiare. Così si è tagliato dappertutto, nel privato e nel pubblico; anche negli ospedali, salvo oggi fare l’elogio del personale sanitario allo stremo delle forze. In qualche caso sono stati tolti fondi pubblici alla ricerca scientifica. Questa faccenda del tagliare le spese pubbliche è andata avanti a lungo. Sono pensionato, ma mi ricordo bene quando iniziai a lavorare. Passarono alcuni anni e già il discorso era quello. E non si è più fermato.

Attualmente muoiono ogni giorno tante persone a causa del coronavirus. Quante ne moriranno dopo, per via di tutte le altre patologie che non saranno state curate o che non saranno state curate a dovere? Interesseranno di certo poco questi morti che prendo come simbolo di quanti rischiano di essere dimenticati. Interesseranno poco come d’altronde è caso per gli Africani che muoiono di malaria ogni anno, salvo calare loro dall’alto lezioni su come si fa a combattere il Covid-19. Contro il virus sono ora materialmente aiutati dal governo cinese che si sta trasformando in salvatore dell’umanità in barba alle sue responsabilità politiche nella diffusione della malattia, continuando ad estendere il suo dominio economico come d’altronde accade con la Russia di Putin. Non vi è però solo questo.

 
La combinazione di capitalismo e autoritarismo collettivistico

 Qualcosa da tempo sta indirettamente influenzando le democrazie già troppo appiattite su tecniche di governo, procedure giuridiche e formali: è la combinazione di capitalismo – che aveva fino a poco fa il suo centro indiscusso negli USA e che è da sempre abilissimo nell’usare ogni modello politico per i suoi fini, organizzandosi per cambiarlo se necessario – e autoritarismo collettivistico. La prassi economica governante ha così imparato, proprio nelle democrazie, a osare chiedere con più decisione margini di manovra sempre più ampi, cercando di limitare i diritti sindacali, gli spazi d’intervento e di autonomia conquistati dalle lotte dei lavoratori, di frenare con discrezione i diritti di espressione e di manifestazione pubblica. Nel passato, capitalismo e autoritarismo collettivistico avevano in comune l’idea della dominazione intensiva della natura mettendo in modo molto diverso l’accento sul benessere dell’uomo. Avevano in comune un avvio subito brutale. Ricordo solo gli inizi della Rivoluzione industriale e mi limito a citare Rosa Luxemburg nel 1918 (fu assassinata il 15 gennaio del 1919), a proposito di Lenin: “si sbaglia completamente per quel che è dei mezzi: decreti, potere dittatoriale degli ispettori di fabbrica, pene draconiane, terrorismo, sono mezzi che impediscono la rinascita. L’unica via che conduce alla rinascita è la scuola stessa della vita pubblica, la più larga e illimitata democrazia” (Die Russische Revolution. Eine kritische Würdigung).


La forma a un tempo più rozza e sofisticata di potere che si sia mai vista


Oggi rimane, in entrambi i casi, il fine unico del potere del mercato esplicitato in modo individualistico e/o collettivistico. Rimane l’esigenza di una distruttiva dominazione dell’ambiente. Siamo probabilmente confrontati con la forma a un tempo più rozza e sofisticata di potere che si sia mai vista, declinata con sfumature diverse, anche molto diverse. Capitalismo e autoritarismo collettivistico hanno in comune l’esigenza di pensare per “divisibili” concatenabili e riconcatenabili a proprio piacimento. Il campo del divisibile è quello dell’ “uno tra gli altri”. In primo luogo se si tratta di lavoratori. Se il capitalismo ha soprattutto bisogno dell’ “uno tra gli altri ”, non cessa nondimeno di esaltare una complementare, equivoca nozione di individuo che, in modo solo apparentemente lineare e ovvio, ha portato a progredire sul piano della giustizia e dell’inviolabilità (spesso a parole) dell’essere umano. Se questa nozione di individuo si è sviluppata è anche, benché non solo, perché richiesta da una diversa idea di gerarchia necessaria in campo produttivo rispetto a quella, chiamiamola così per brevità, d’ “ancien régime”. Aggiungiamo che democrazia e capitalismo non sono la stessa cosa e se il loro legame è forte, non per questo è eterno e intoccabile.

“Tolleriamo disuguaglianze economiche che mai tollereremmo se fossero di natura politica”


Che fare allora per cercare di aprire subito vie a un cambiamento indispensabile, per non cumulare catastrofi su catastrofi che sono sempre umane e sociali? Siamo in un’epoca in cui “tolleriamo disuguaglianze economiche che mai tollereremmo se fossero di natura politica” dice Jeffrey A. Winters, politogo e professore nella Northwestern University a Chicago intervistato dal quotidiano “Le Temps” il 5 novembre dell’anno scorso. Faceva notare che nell’Impero romano “le 500 persone più ricche del Senato [...] erano circa 10’000 volte più ricche dell’individuo medio. Oggi, negli Stati Uniti, le 500 persone più ricche sono tra 60’000 e 100’000 volte più benestanti del cittadino medio”. Che fare ci chiedevamo. Il fatto che non ci siano più modelli forti, programmi sistematici è un’opportunità per scoprire, nel mondo attuale, possibilità di sovvertimento del mondo stesso, di là da stanchezza, delusione, rassegnazione; di là da individualismo e comunitarismo come appartenenza a una comunità facile preda, quindi, di chiusure, rancore e integralismo.

Un sovvertimento indispensabile per un’effettiva salvaguardia del pianeta

Per essere efficace, questo sovvertimento indispensabile per un’effettiva salvaguardia del pianeta, dovrebbe iniziare dal mondo del lavoro. Dal mondo della produzione di merci e servizi, nonché dal riconoscimento di una situazione comune a moltitudini di lavoratori salariati, di piccoli lavoratori indipendenti, di disoccupati che non sono ancora completamente emarginati. Perché se sei emarginato da tutto è difficile avere la lucidità e l’energia per trovare forme di comunicazione, di aggregazione, di solidarietà in grado di portare a inventare nuove forme di lotta comune, anche accrescendo la partecipazione ai e nei sindacati rinnovandone e potenziandone gli strumenti e la vena combattiva. In essi la partecipazione dal basso è più credibile rispetto a quanto è concepibile per altre organizzazioni. Bisogna tuttavia attivarsi in fretta. Dietro parole rassicuranti, la ragion di Stato al servizio della ragione economica dei più forti e sempre più forti rischia d’abbattersi con una brutalità ancora inedita se non sapremo fare nostro il monito del grande poeta uruguaiano Mario Benedetti (1920-2009): «non ti salvare / non riempirti di calma / non tenerti del mondo / solo un angolo quieto».

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