A tre anni dall’inizio della guerra c’è chi prova a schivare il fronte per ‘proteggere la famiglia’, chi teme la burocrazia e chi non si fa più illusioni
Oleg e Irina abitano in una casetta di legno immersa nei boschi, poco fuori Kiev. Le loro vite si sono incrociate durante la guerra: prima per lavoro, poi per amore. Intorno alla casa regna il silenzio, interrotto solo dall’abbaiare del cane di una villa poco distante. La strada sterrata che conduce all’abitazione costeggia un piccolo lago. Il silenzio viene talvolta squarciato dal suono di una batteria antiaerea, posizionata nei paraggi, che si attiva quando i droni iraniani si dirigono verso la capitale.
A Oleg piace preparare grigliate di carne e pesce quando ha ospiti. Ha 53 anni, è laureato in fisica, ma non ha mai esercitato la professione. Possiede una piccola azienda di pellet, che Irina commercializza in Italia. Ha lasciato la moglie per lei. Oleg e Irina trascorrono il tempo scherzando e giocando come due giovani innamorati. Lei ha vissuto in Trentino ed era sposata con un italiano. È tornata in Ucraina allo scoppio della guerra, ma stava già pensando di cambiare vita. Non si sentiva più amata e non amava più, e quando ciò accade, la vita sembra un fallimento, priva di prospettive e di scopo.
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Una donna e il suo gatto
I figli di Oleg non sono ancora in età di leva, ma lui teme per il loro futuro e per il proprio: potrebbero chiamarlo alle armi, e non vuole morire in una trincea, lontano da tutti, soprattutto ora che ha saputo che Irina ha un tumore. “E questa è la paura dell’ignoto. È la paura che Irina muoia, la paura per i miei due figli e per i miei nipoti, che hanno bisogno del mio aiuto. Capisco che non posso abbandonarli. I miei figli hanno perso la madre per un tumore l’anno scorso, e per me rimarranno sempre i miei bambini da proteggere. Forse dall’esterno può sembrare un tentativo di autogiustificazione, ma questo è il mio pensiero fisso”.
A Oleg piace suonare la batteria. La loro casa è sempre piena di musica rock e jazz, e ospita anche un gatto, Tolik, trovato nel bosco. “All’inizio pensavamo che la guerra sarebbe stata breve e rapida. Come molti, sono stato volontario all’inizio, e ancora oggi aiuto i nostri soldati al fronte attraverso varie associazioni. Ora, però, non ho alcuna certezza su come andrà a finire. Se arriverà la convocazione, non mi nasconderò, questo è sicuro. Partirò”.
Irina e Oleg escono poco di casa, per evitare i controlli stradali, intensificati soprattutto di sera, per verificare i documenti e fermare chi, pur avendo ricevuto l’invito a presentarsi ai centri di addestramento, non lo ha fatto. La storia di Irina e Oleg ci mostra come le tragedie e gli sconvolgimenti personali non cessino di esistere durante la guerra, ma semplicemente svaniscano di fronte al dolore collettivo, ai lutti e alle tragedie direttamente legate al conflitto. A volte, ci si vergogna persino a parlarne in pubblico.
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Arte in un parco di Kiev
Un’ulteriore ansia, che si aggiunge alle tante incognite sul futuro del paese, è stata data dall’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Si teme per la fragile economia dell’Ucraina, per le dichiarazioni altalenanti del leader americano nei confronti di Kiev e per le sue posizioni verso la Russia, nonché per la violenza delle sue parole nei confronti del presidente Zelensky. “Se l’Ucraina non riceverà reali garanzie di sicurezza, è certo al cento per cento che tra uno, due, al massimo tre anni, ci sarà un’altra guerra come questa, ma la Russia sarà ancora più preparata. E questa sicurezza dipenderà dagli Stati Uniti e dall’Europa. Senza il loro sostegno, la prossima guerra per l’Ucraina sarà ancora più terribile. Voglio che i miei figli e i miei nipoti vivano in pace. Qui ci sarebbero molte opportunità di sviluppo, personale ed economico, ma se la pace non è duratura, non ha senso. Se il Paese venisse abbandonato al suo destino, non vivrei sotto l’occupazione russa. Io e altri milioni di persone avremmo una sola scelta: morire o andarcene”.
Il verdetto letto in aula dice “non colpevole”. Il tribunale militare di Dnipro ha appena emesso la sentenza nei confronti di Serhii Hnezdilov, blogger e giovane soldato ucraino che ha trascorso gli ultimi cinque anni al fronte. Il suo contratto sarebbe scaduto nel 2022, ma l’invasione lo ha riportato in prima linea contro i russi, senza una data certa per il congedo. Lo scorso settembre, dopo mesi di richieste inascoltate, ha scelto una soluzione radicale per portare la sua causa sotto i riflettori: la diserzione, comunicata pubblicamente attraverso i social media. Una scelta forte, che ha diviso la società civile ucraina, ma che ha avuto, come in tutte le democrazie, la sua funzione: quella di stimolare il confronto e il dibattito su un tema cruciale, quello dei congedi, delle licenze, degli abusi di potere, delle rotazioni al fronte e della mobilitazione, ma anche delle diserzioni, che negli ultimi mesi sono aumentate esponenzialmente.
L’incertezza sul futuro della nazione pesa sulle scelte individuali. Il timore di essere definitivamente abbandonati dalla principale potenza militare mondiale, gli Stati Uniti, che finora, pur tra mille incertezze sull’invio di armi, avevano dichiarato il loro pieno sostegno al popolo e al governo ucraino, è palpabile. Con Trump, tutto cambia, le carte vengono rimescolate, e le sue continue giravolte e dichiarazioni non aiutano chi, con un fucile in mano, difende sé stesso e i propri cari sul campo di battaglia.
Il governo ucraino ha cercato, attraverso una legge approvata lo scorso settembre, di favorire il rientro volontario dei disertori nelle unità militari, evitando loro il processo e cinque anni di carcere. Ad oggi, si stima che oltre centomila uomini abbiano disertato. Serhii Hnezdilov ha rischiato la prigione, ma dopo aver aperto un dibattito pubblico sulla questione dei congedi, è rientrato nella 56a Brigata.
Lo abbiamo raggiunto nel Donbass, dove ora opera come dronista, per chiedergli cosa ne pensa degli ultimi eventi politici internazionali: “Combattiamo per la nostra esistenza e per i nostri confini riconosciuti dal diritto internazionale. Se l’America ha deciso di non sostenerci, posso solo augurarmi che ciò che è accaduto a noi non accada anche a loro in futuro, perché forse non hanno imparato nulla dalla storia, o forse l’hanno dimenticata: è impossibile essere d’accordo con i regimi totalitari e prima o poi i regimi totalitari verranno a bussare alle loro porte. Questi sono tempi bui. Ci si aspetta che nei periodi difficili emergano persone forti, ma i periodi difficili fanno nascere persone deboli. So che l’unica cosa che mi resta da fare è combattere l’impero, l’autocrazia, il regime totalitario russo che vuole distruggere gli ucraini e tutti coloro che si battono per la loro indipendenza. Purtroppo, sembra che gli americani si siano abituati troppo alla libertà e la credano una cosa ovvia, intoccabile, per cui non si deve più combattere. Noi l’abbiamo avuta, l’abbiamo e l’avremo sempre. Ma la libertà è un valore che dobbiamo difendere e non saranno due vecchi pazzi (Trump e Putin) a decidere come devo vivere nel mio Paese”.
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Bambini davanti a un’immagine di propaganda bellica a Kiev
Dal Donbass ci spostiamo a Dnipro, nell’est dell’Ucraina. Città di quasi un milione di abitanti, Dnipro è un importante centro industriale e commerciale, oggi cruciale per la logistica e il supporto dello sforzo bellico ucraino. La sua posizione strategica sul fiume Dnepr la rende un nodo di comunicazione fondamentale, ma anche un obiettivo potenziale per le forze russe.
Maxim Bujansky è nel suo studio. Su un piedistallo troneggia una grande Menorah, uno dei simboli principali dell’ebraismo, una lampada a olio a sette braccia che anticamente veniva accesa nel Tempio di Gerusalemme. Membro della comunità ebraica locale, ha una passione per la storia e per gli imperatori romani, di cui colleziona i busti. Ma oltre alla sua passione per il mondo antico, Bujansky è un politico, autore della legge sull’arruolamento femminile nelle forze armate e sulla prevenzione e il contrasto all’antisemitismo in Ucraina.
Le sue posizioni, spesso controverse, lo hanno reso un personaggio divisivo. Nel 2022, è entrato a far parte della formazione ‘Servitore del Popolo’, il partito del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Oggi siede nel gruppo misto. “I democratici sono stati un vero disastro. E non mi aspetto che Trump sia un mago e che, con un colpo di bacchetta, il mondo migliori all’improvviso. Non voglio commentare nulla dell’incontro tra il nostro presidente Zelensky e il presidente americano a Washington per ora, che senso ha? Le buone notizie non ci saranno più. Questo è chiaro da tempo, bisogna solo farci l’abitudine. È difficile abituarsi, ma bisogna anche abituarsi al fatto che gli Stati non hanno amici. Ognuno pensa a sé stesso finché ha la volontà e la forza”.
“L’Ucraina è scomoda per tutti, irritiamo, non dilettiamo; nella Realpolitik questo non è accettato, lì si arrendono il secondo giorno, consegnano le chiavi inchinandosi. Viviamo in un’epoca in cui chi inizia una guerra di aggressione non paga, ma lo deve fare chi è più debole; questa è purtroppo la formula per la pace”.
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Murale dedicato al kickboxer Maksym Bordus
“Inoltre – prosegue Bujansky – qualsiasi termine fissato ora è assurdo: che sia un giorno, cento o un anno. Così, rischiamo solo di finire male e in fretta. Per una conclusione positiva, servono tempo e impegno. A differenza della precedente amministrazione, Trump ha un approccio diretto e pragmatico, ragiona in termini di vantaggi, di utili. Per quanto riguarda un compromesso con la Russia, molto probabilmente si tratterà di una soluzione precaria e instabile, con uno status quo sul campo che comporterà concessioni territoriali. Questo non significa che riconosceremo l’occupazione o rinunceremo ai territori occupati. Non ci arrenderemo mai.
“Sulla questione dell’adesione alla Nato – conclude Bujansky – ritengo che al momento non sia una priorità. A mio avviso, dovremmo rinunciare a questo obiettivo, almeno per ora. Ciò non esclude la possibilità di ospitare basi militari straniere sul nostro territorio. Alcuni non vogliono ammetterlo e continuano a insistere su questo punto, anche per motivi strategici, perché nei negoziati, come in ogni trattativa, bisogna essere disposti a cedere qualcosa. Se rinunciamo a priori, non avremo nulla da offrire in cambio”.
Bujansky definisce tutto questo pragmatismo, che può sembrare freddo, cinico e calcolatore, ma che si basa su una logica antica, sui rapporti di forza e sull’accettazione della realtà. Dalla sua ampia veranda, il politico indica un punto nel palazzo di fronte: “È lì che è caduto un missile russo. Ha distrutto tutte le vetrate del mio palazzo e di quello di fronte. Mio padre, per fortuna, si è salvato per un soffio. Era appena rientrato. I russi avrebbero potuto fare una strage. Ecco, tutte le garanzie e le richieste che rivolgiamo agli altri Paesi, qualunque esse siano, in linea di principio, sono effimere, tranne una: il sole sorge ogni mattina e tramonta ogni sera. Tutto il resto è opinabile. È infantile credere che esistano garanzie assolute di sicurezza. A livello locale, per un breve periodo, è possibile, ma a livello globale, no. Le garanzie degli Stati membri della Nato non sono mai state messe alla prova. E il grande interrogativo è se e come funzioneranno in caso di necessità. Perché è stabilito che, in caso di attacco a un Paese membro, gli altri avvieranno delle consultazioni. Il sistema di pace di Yalta ha garantito stabilità all’Europa e al mondo per oltre mezzo secolo. Questo non è il primo sistema di questo tipo. Nel XVII secolo, c’era la pace di Vestfalia. Dopo le guerre napoleoniche, il Congresso di Vienna. Dopo la Prima Guerra Mondiale, il Trattato di Versailles. Si instaurerà un nuovo sistema globale, che, come ogni sistema, dovrà basarsi su un equilibrio, per consentire alle grandi potenze di gestire i loro affari in modo pacifico. Ma le garanzie sono una teoria astratta e, in quanto tali, ingenue e infantili. Non sono come un sistema antincendio: se vedi fumo dalla finestra del vicino, chiami i pompieri. Le dinamiche internazionali sono ben diverse”.
Nella baita di Irina e Oleg hanno appena finito di vedere l’incontro tra Trump e Zelensky nella Sala Ovale del Campidoglio, a Washington. Irina è sconvolta. Pensa che sia tutto finito. “Ora tocca a voi europei”, dice. Fuori la contraerea riprende a scandagliare il cielo.
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Sorrisi e tuffi in acque gelide a Kiev