regno unito

Boris Johnson alla resa dei conti sul Partygate

In gioco il suo futuro politico. L’ex premier: ‘Non ho mentito’

Bugiardo
(Keystone)

Prima il giuramento sulla Bibbia e poi la frase detta "con la mano sul cuore": "Non ho mentito alla Camera dei Comuni". Così Boris Johnson si è presentato alla resa dei conti finale sul Partygate, lo scandalo che ha fortemente contribuito alle sue dimissioni da premier l'anno scorso e continua a rappresentare una pesante ipoteca sulla sua carriera politica e sull'aspirazione di tornare un giorno al vertice del partito conservatore.

Parole impegnative quelle pronunciate da un BoJo combattivo e consapevole di giocarsi praticamente tutto nell'audizione (durata tre ore) davanti alla commissione bipartisan di Westminster, nota come Privileges Committee, che sta conducendo l'inchiesta per stabilire se l'attuale deputato Tory abbia ingannato i parlamentari con le sue dichiarazioni quando era primo ministro sullo scandalo dei party organizzati a Downing Street in violazione delle restrizioni anti-Covid.

Le scuse

Johnson prima ha ribadito le sue scuse per quanto accaduto quando era capo del governo che imponeva durante la pandemia lockdown e regole a milioni di britannici per poi violarle, poi ha ammesso di aver "fuorviato" con le sue ricostruzioni la Camera dei Comuni ma non di proposito, negando quanto gli viene imputato: di averlo fatto in modo deliberato e avventato.

Già nella sua lunga dichiarazione iniziale alla commissione – formata da quattro deputati conservatori, due laburiste (inclusa la presidente Harriet Harman) e un indipendentista scozzese dell'Snp – è partito all'attacco: non c’è "nulla" per dimostrare che abbia ingannato il Parlamento quando si difendeva dalle accuse sullo scandalo. Nemmeno le foto, circolate sui media, delle feste organizzate a Downing Street.

Nelle immagini erano ritratti l'allora premier e i suoi collaboratori riuniti, in violazione delle regole di distanziamento vigenti. "Non mostrano nulla del genere. Mostrano me che dico qualche parola di ringraziamento a un evento di lavoro per un collega che se ne va", ha tagliato corto Johnson. Per quanto lui ne sapesse le regole venivano sempre seguite negli uffici istituzionali, con qualche eccezione ritenuta ammissibile sul posto di lavoro, e le tante violazioni emerse, così "ovvie" per il Privileges Committee, per lui non lo erano.

‘Nessuna vera prova’

L'ex leader Tory è poi sceso nello specifico: a suo avviso la commissione non ha e-mail o messaggi WhatsApp capaci di provare in modo certo che lui fosse stato avvertito dai collaboratori di allora di palesi violazioni delle regole prima di fare le sue dichiarazioni ai Comuni. Al contrario, afferma di aver ricevuto "rassicurazioni" dai suoi consiglieri fidati e lo ha ribadito negli scambi anche accesi di domande e risposte coi deputati del Privileges Committee.

Nel dossier raccolto dalla commissione ci sono comunque le dichiarazioni di alcuni dei più stretti collaboratori di Johnson dell'epoca, come il segretario generale di Downing Street Simon Case, o il responsabile dei media Jack Doyle, che negano di aver garantito all'allora premier la certezza del rispetto delle misure anti-Covid a Downing Street. Il tutto però si presta a interpretazioni in mancanza della ‘smoking gun' e quindi delle prove schiaccianti sulla volontà di mentire da parte di Johnson, già multato da Scotland Yard per aver personalmente violato le restrizioni. E BoJo non ha esitato a mettere in discussione l'imparzialità della presidente laburista della commissione, pur aggiungendo di essere disposto ora a concedere il beneficio del dubbio alle sue rassicurazioni.

Tira in ballo Sunak

Non solo, ha anche tirato in ballo Rishi Sunak, dicendo che le conclusioni dell'inchiesta su di lui saranno valide anche per "l'attuale primo ministro", all'epoca dei fatti cancelliere dello Scacchiere e presente a Downing Street in occasione di alcuni dei ritrovi contestati. Del resto Johnson rappresenta una spina nel fianco di Sunak e oggi si è fatto sentire anche ai Comuni votando insieme ad altri esponenti ultrà ribelli del partito conservatore al governo (inclusa l'ex premier Liz Truss) contro il Windsor Framework, l'intesa di modifica del protocollo post Brexit sull'Irlanda del Nord, comunque approvato a larga maggioranza grazie al sostegno delle opposizioni.

Boris però deve prima di tutto pensare a quello che potrà accadere a lui al termine dell'inchiesta di Westminster: rischia una umiliante sospensione da deputato e, anche se si tratta di un'ipotesi più remota, la perdita del seggio e così un colpo definitivo per le sue ambizioni politiche.

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