Estero

Roberto Maroni: ‘barbaro sognante’, leghista gentile

Il ricordo di uno dei padri fondatori della Lega Nord italiana, un secessionista che amava il soul e le buone letture

(Keystone)
22 novembre 2022
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Roberto Maroni, il leghista gentile, veniva da Lozza, un comune che si trova a un tiro di schioppo da Stabio e da Varese. Avendo incrociato sulla sua strada Umberto Bossi ne fu subito conquistato e più di una volta ha ricordato di quando, insieme a quell’amico varesotto anche lui, sottraeva l’auto alla mamma di notte per andare ad attaccare manifesti che invocavano la secessione della Lombardia dall’Italia contro "Roma Ladrona".

Entrambi, oltretutto, avevano in comune una militanza giovanile a sinistra: Bossi nel Pci, Maroni in un movimento marxista-leninista. Del duo Bossi-Maroni il primo, con la sua voce cavernosa, era l’elemento alfa, pronto all’insulto e alla bagarre, incurante di spararla grossa, come quando affermò che, negli anni 80, riuscì a bloccare 300mila bergamaschi armati pronti a fare la rivoluzione contro Roma. Maroni invece figurò, negli anni del celodurismo, come una sorta di alter ego moderato di Bossi, rappresentando se vogliamo la Lega in doppiopetto, grazie anche alla sua laurea in giurisprudenza. Niente a che vedere, insomma, con il leader leghista che – facendo finta di frequentare medicina, per di più vivendo sulle spalle della prima moglie – organizzò una festa di laurea quando ancora era nient’altro che uno studente fuori corso, che al posto di frequentare l’università passava le giornate a giocare a biliardo.

Quando, alle politiche nel ’94, la Lega entrò in Parlamento con circa l’8% dei voti per poi formare una coalizione con Forza Italia e Alleanza Nazionale, Roberto Maroni divenne Ministro dell’Interno nonostante un’iniziale riserva del Presidente Oscar Luigi Scalfaro, restio ad affidare quel delicato incarico a un secessionista. Maroni si affezionò al Viminale e nel ’95, quando Bossi tolse la fiducia a Silvio Berlusconi, fece resistenza, tanto da beccarsi l’accusa di traditore dal capo. L’insulto gli piovve dal palco dell’allora Palatrussardi di Milano, durante un congresso della Lega Nord. Ero presente, in qualità di cronista, e ricordo di aver incrociato un Maroni in lacrime per l’attacco di Bossi.

Con il quale il binomio si ricompose in fretta così come – grazie a un accordo sottoscritto da un notaio – quello tra Bossi e Berlusconi. Così Roberto Maroni, nei due successivi governi del Cavaliere, tornò a ricoprire incarichi di ministro, prima del Welfare poi dell’Interno. Nel 2013, conclusasi l’era Formigoni in Lombardia, venne eletto presidente della Regione. In precedenza – quando Bossi finì nella polvere per le malefatte del famoso "cerchio magico" che gestiva il movimento a proprio uso e consumo –, Maroni aveva accettato di subentrare al vecchio segretario e si era fatto immortalare con in mano una ramazza, nell’intento di fare pulizia.

Con l’arrivo di Salvini Maroni iniziò a mostrare un profilo basso, a dimostrazione del suo scarso entusiasmo nei confronti del nuovo segretario. Dopo la sconfitta elettorale patita dalla Lega alle elezioni politiche dello scorso 25 settembre, Maroni è andato giù duro con i vertici leghisti: "Ora si parla di un congresso straordinario – dichiarò in un’intervista a Repubblica –, ci vuole. Io saprei chi eleggere come guida, ma per adesso non faccio nomi".

Era già gravemente malato e anche se forse sognava il ritorno alla Lega delle origini – non certo quel movimento sovranista che ha prima illuso, poi punito Salvini – gli sono mancate la forza e probabilmente anche la voglia per tornare in pista. "È morto il barbaro sognante della Lega", lo ha ricordato Avvenire. Un "barbaro" che amava le buone letture e la musica soul.

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