John Baptist Onama: ‘Ti mettevano un kalashnikov in mano e dopo tre giorni eri a combattere. In Uganda interi battaglioni formati da bimbi di nove anni’
John Baptist Onama e Dominic Ongwen sono due ex bambini-soldato ugandesi. Entrambi avevano 13 anni quando sono stati catturati e costretti a indossare un’uniforme. Ongwen, un mese fa, è stato condannato dalla Corte penale internazionale dell’Aja in quanto signore della guerra, passato da vittima a carnefice. Come se non ci fosse altra strada per chi riceve un’arma in mano quando è ancora ragazzino. Ma un’altra strada c’è. L’ha imboccata John Baptist Onama, 54 anni, oggi mediatore culturale e pedagogista. Vive a Padova e si occupa di diritti umani collaborando, tra gli altri, con Amnesty International. Non solo ripudia le armi, quelle vere, ma chiede a genitori e parenti di non regalare armi-giocattolo ai bambini: “Per un bimbo è difficile capire la differenza tra gioco e realtà. Ci sono tanti altri bei giochi… Ogni volta che vedo un videogame con le teste che esplodono, penso che io l’ho vista davvero la gente saltare per aria. Ero poco più di un bambino e la mia innocenza è stata rubata”.
Il caso Ongwen è un capitolo doloroso per uno come lei?
“Tutto quel che di orrendo accade in Africa lo è. Si compiono, impunite, atrocità di ogni tipo. Quando all’Aja hanno incriminato Ongwen, in Uganda si stava studiando un’amnistia per liberarlo. Certi governi, poi, si sostengono l’uno con l’altro”.
Dominic Ongwen, signore della guerra condannato dal Tribunale dell'Aja (Keystone)
Quanto è diffusa oggi la pratica dei bambini-soldato?
“È un fenomeno straripante. Ongwen quando fu preso ne aveva 9, oggi vengono arruolati bambini di 5-6 anni. Spesso sono loro stessi a offrirsi. Sono orfani, non hanno una comunità che li protegge. Ryszard Kapuscinski in “Ebano” racconta dei bambini autoreclutati dell’Uganda. E io ricordo il dittatore Amin che vestiva i suoi figli in uniforme con tanto di medaglie militari. Quando ci si abitua a questi eccessi, qualcuno pensa che sia normale mettere un’arma in mano a un bambino”.
Lei come è diventato un bambino-soldato?
”Nel 1979 Amin fu cacciato con tutte le sue truppe e l’Uganda cambiò di colpo il suo esercito. Spinti dalle condizioni dei campi profughi, alcuni uomini sconfinavano nell’area di Moyo, al confine con il Sudan, per rubare cibo, oggetti e armi. Le loro azioni di disturbo e imboscate mettevano in difficoltà quell’esercito inesperto e Moyo fu dichiarata zona di guerra. Queste bande non avevano divisa e quindi chi poteva distinguere tra civili e banditi? Nell’ottobre del 1980 io e mio fratello perdemmo il contatto con la famiglia e finimmo nelle mani dell’esercito. Loro non conoscevano il territorio e avevano bisogno di noi, che eravamo della zona, per pattugliare, fare da guida e contrastare i ribelli”.
Vi insegnavano a usare armi? Che vita facevate?
“Vita militare. Io, mio fratello e altri 4 ragazzini facevamo parte di un plotone di 70 uomini. Venivamo trattati meglio degli adulti. Se facevi le cose giuste e collaboravi eri un po’ la mascotte, il Kidogo si dice dalle mie parti. Ci davano da mangiare a sufficienza e a modo loro erano anche protettivi. Però stavamo via anche 6-7 giorni di fila. Di notte si dormiva all’aperto o in case abbandonate dove dovevamo fare turni di guardia. I ribelli, agilissimi e in piccoli gruppi, ci seguivano. Non avevano pietà, avevano i loro cecchini, uccidevano per vendicare i loro compagni. Si viveva alla giornata: ‘Oggi ci sono, domani non lo so’. Facevano fumare marijuana anche a noi più piccoli. Era un modo per rilassarsi, oltre che per ingannare la fame, il freddo e la stanchezza. Camminavamo ore e ore, per decine di chilometri, anche di notte”.
Un bambino-soldato impara a usare le armi (Keystone)
Che armi vi davano?
“La maggior parte erano kalashnikov, ognuno aveva il suo. L'equipaggiamento era misto, la divisa ad esempio era inglese. Avevamo anche lanciarazzi e mortai. Io avevo solo il mio kalashnikov. Ero una guida, ed essendo sempre più avanti rispetto agli altri ero più esposto a scontri e spari. Avere un’arma era necessario. In tre giorni di addestramento ti insegnavano a usarlo, mantenerlo, pulirlo, assemblarlo”.
E poi, che è successo?
“Finita la stagione delle piogge, la boscaglia veniva bruciata e c’erano meno nascondigli. Quindi c’era anche meno bisogno di me. Sono tornato al quartier generale, da lì sono scappato a Gulu, dove sono nato. Incontrai una suora e mi sono rivolto a lei, mi ha preso in un collegio. Ma temevo sempre che i militari mi riconoscessero. Così sono salito su un camion che andava verso la capitale. Ero un irregolare nell'esercito regolare, col vantaggio di poter scappare facilmente e lo svantaggio che potevano fare di te quel che volevano. Di fatto non esistevi. Eri carne da macello”.
Eravate molti bambini-soldato? Come venivano reclutati?
“All’epoca era una cosa rara. Solo negli anni Ottanta diventerà una consuetudine. Nel 1982 ci fu un’altra guerriglia nel sud dell’Uganda con un intero battaglione formato da 1.500 bambini-soldato di nove-dieci anni. Assisti al massacro dei genitori o dei tuoi fratelli e ti dicono ‘li hanno uccisi quegli altri’, tu cosa fai? Parti. Molti bambini-soldato non escono mai più dell’esercito. Perché non hai alternative, non impari altro. Hai solo la tua capacità di combattere. Poi da giovane ti senti forte, spericolato, invincibile. Prendi rischi che un adulto non prende. E vieni usato per compiere atrocità. In Sierra Leone quelli che tagliavano le mani ai rivali erano bambini-soldato. Io ho avuto esperienza tremende, ho visto uccidere con i miei occhi, ma rispetto a cosa è successo dopo è stata poca roba. Tutto è precipitato. Saranno una trentina i Paesi in cui vengono usati bambino soldato. Abbiamo visto bambini dell'Isis uccidere gli infedeli. In Congo la situazione è pure peggio, non esistono più aggettivi per descrivere la situazione di quel Paese. Ma anche in Ciad, Sudan, Somalia, Repubblica Centrafricana e Mozambico arruolano bambini. E sempre più piccoli”.
Lei come ne è uscito?
“Era il 1981. Stavo andando in Sudan, in un convoglio di aiuti umanitari scortato, per tornare dai miei genitori nel campo profughi. Ma non ci sono arrivato. A Gulu i militari mi hanno riconosciuto, minacciato, accusato di essere una spia, punito e poi rispedito al fronte. Vogliono farti credere che ti risparmiano la vita per farti rigare dritto. Dopo sei mesi sono riuscito a scappare, trovando la protezione di un vescovo. Mi ha salvato la scuola. Ero considerato un ragazzo intelligente che in Uganda non aveva i mezzi per fare l’Università. Alla fine tramite l’Azione Cattolica sono stato ospitato da una famiglia di Verona. Mi ha cambiato la vita”.
John Baptist Onama oggi vive a Padova (Film Festival Diritti Umani Lugano)
È più tornato in quei posti?
“Sì, e non è un effetto molto bello. Nel 2019 ho ripercorso in autobus lo stesso percorso che avevo fatto da bambino-soldato. Su uno dei ponti dove avevo subito un’imboscata, si è rotto il bus e abbiamo dovuto fermarci per un pò proprio lì”.
Ha fatto i conti con il passato?
“Ho sofferto in silenzio. Per anni non ne parlai. E i conti con quel passato li continuo a fare ancora oggi. Poi in Uganda quando sei coinvolto in atti di sangue sei malvisto. Se uno è assassino da bambino, figuriamoci da adulto. Non si tiene conto di come le cose accadono. Avevo anche cercato di raccontare alcuni episodi a scuola, in Africa, ma fu ancora peggio. Mi escludevano. In Italia iniziai ad aprirmi quando avevo 24-25 anni”.
Come reagisce chi la conosce?
“A Padova parlo poco del mio passato. La gente, quando sa, cade dalle nuvole. Non amo essere conosciuto per quel che ero. Perdipiù senza colpe. Mi sono creato una vita nuova, che mi piace e mi appassiona. E io sono quello che sono oggi”.