Estero

Il giudice francese che inseguì il riciclaggio in Svizzera

"Un paese paradossale. Una delle principali destinazioni della frode fiscale e del denaro sporco. Ma anche il paese dell'Appello di Ginevra".

Il giudice nel 2004 (Keystone)
17 aprile 2021
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Tutti i grandi casi di criminalità finanziaria che hanno toccato la Francia negli ultimi decenni sono passati dalle sue mani. Renaud Van Ruymbeke ha incarnato il ruolo di magistrato transalpino inflessibile e combattivo. Ha indagato in settori sensibili e ad alto rischio corruzione, come il petrolio e le armi; e non ha guardato in faccia a nessuno quando i flussi di denaro sporco finivano nelle tasche di questo o quel politico. Noto per la sua discrezione, oggi in pensione, Renaud Van Ruymbeke ha scritto un libro pubblicato di recente (Mémoires d'un juge trop indépendant, Editions Tallandier, 2021) in cui ripercorre la sua carriera e denuncia le zone d'ombra della finanza internazionale. A partire dalla Svizzera, da dove sono passate quasi tutte le sue inchieste. Lo abbiamo intervistato, partendo proprio da un'iniziativa lanciata a Ginevra venticinque anni fa per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla necessità di collaborazione internazionale nella giustizia, oltre che per denunciare il ruolo dei paradisi fiscali nelle dinamiche di corruzione e riciclaggio globali.

Signor Van Ruymbeke, nel 1996, con alcuni suoi colleghi europei ha lanciato l'Appello di Ginevra. Di che cosa si tratta?

L'appello di Ginevra nasce da una constatazione: le società e i conti offshore permettono ai grandi frodatori, ai criminali di alto livello e ai corrotti di sfuggire alla giustizia. Bisognava quindi riformare in profondità il sistema. Era l'epoca che veniva dopo Mani Pulite in Italia e a degli scandali in Spagna. Io stesso avevo indagato sul finanziamento illecito del Partito socialista e su altre vicende che mostravano la difficoltà della cooperazione internazionale. In questo contesto volevamo avvertire i cittadini sui privilegi accordati dai paradisi fiscali e sulla nostra impotenza di fronte alla corruzione.

Perché Ginevra?

La città era un simbolo della frode fiscale e del riciclaggio. Ogni volta che noi giudici o procuratori rimontavamo i circuiti per comprendere i meccanismi della corruzione ci scontravamo alle frontiere e alle difficoltà nell'ottenere le informazioni bancarie in alcuni paesi. In Svizzera in particolare. Ciononostante, in questo contesto, il Procuratore generale di Ginevra, Bernard Bertossa, era molto impegnato nella lotta al riciclaggio. Ciò che all'epoca, in Svizzera, non era evidente. Per questo abbiamo scelto Ginevra, simbolo di questa coincidenza d'interessi tra i paesi vittima della corruzione e la Confederazione, dove il denaro di questa corruzione era riciclato.

Ha citato Mani Pulite. Con che sguardo, dalla Francia, ha osservato il lavoro dei suoi colleghi italiani?

L'Italia aveva bisogno di questa operazione per mettere fine a una situazione anormale. I procuratori italiani erano all'avanguardia nel perseguire le pratiche illecite legate al finanziamento della vita politica. Erano totalmente indipendenti dal potere. Ciò che costituisce una differenza fondamentale con la Francia dove mi sono personalmente scontrato con inchieste che non potevano partire o che erano bloccate da procuratori poco indipendenti.

A Ginevra c'era Gherardo Colombo, ma non Antonio Di Pietro. Come mai?

Ci rifiutammo di invitarlo perché si era lanciato in politica e non volevamo nessuna interferenza di questo tipo nella nostra iniziativa.

Ritornando alla Svizzera, come valuta la collaborazione con i suoi colleghi elvetici?

La Svizzera è un paese paradossale. È una delle principali destinazioni della frode fiscale e del denaro sporco. Ma è anche il paese dell'Appello di Ginevra. Questa città simbolo ha avuto un ruolo pionieristico nella lotta ai grandi scandali finanziari. L'ho constatato direttamente: le mie inchieste mi hanno portato spesso in riva al Lemano dove ho potuto incontrare grandi professionisti nella lotta al riciclaggio. Colleghi che mi hanno enormemente aiutato a identificare i flussi finanziari al centro di ogni inchiesta. Mi ricordo che nell'ambito dell'affare Elf, il loro lavoro è stato impressionante e determinante. Ho però constatato un'enorme differenza tra la Svizzera romanda e quella tedesca. Era molto difficile, all'epoca, ottenere informazioni dalla giustizia di Zurigo o Zugo: lì ogni pretesto era buono per non rispondere e si sentiva il potere del mondo finanziario.

Ha menzionato l'affare Elf, una vicenda che ha visto come protagonista anche una piccola società di Chiasso. Se lo ricorda?

Certamente. «Ho bisogno di Oscar»: questa frase spifferata al telefono a uno dei banchieri di Elf attivava un sistema efficace per rimpatriare dalla Svizzera alla Francia importanti somme di denaro contante. Si parla di decine di milioni di franchi francesi dell'epoca indirizzati a Alfred Sirven, massimo dirigente di Elf. Pensavamo che il denaro fosse poi restituito a vari referenti politici. A organizzare questo rimpatrio vi era questa società finanziaria di Chiasso che in cambio prelevava una commissione del 3%.

Nel suo libro critica l'operato della Svizzera nell'affare Falciani. Cosa contesta alla Confederazione?

Questo caso racchiude tutta l'ambiguità della Svizzera. La Procura federale ha perseguito Hervé Falciani in seguito alla denuncia della banca Hsbc per il furto dei dati. Berna ha spiccato un mandato d'arresto nei suoi confronti e l'ex informatico è stato arrestato in Spagna, dove ha passato diversi mesi in prigione. La lista Falciani fa poi il giro del mondo e diversi Stati si interessano al suo contenuto. La Svizzera, però, avrebbe dovuto validare queste informazioni, ma la giustizia elvetica ha rifiutato ogni assistenza giudiziaria a riguardo. In Svizzera, la vittima era la banca.

Con gli Stati Uniti, l'approccio elvetico è stato differente...

Quando, nel 2007, l'ex impiegato di Ubs Bradley Birkenfeld consegna alle autorità fiscali americane la sua lista con i nomi dei clienti evasori, Washington esige e ottiene la lista dei clienti della banca. Ciò che mostra i rapporti di forza. Una banca svizzera che non può più lavorare negli USA tanto vale che chiuda. La Svizzera è così costretta a collaborare con gli Stati Uniti dove non solo Birkenfeld non è sanzionato, ma riceve una ricca ricompensa. Grazie alle sue informazioni, le autorità fiscali americane hanno recuperato cinque miliardi di dollari. Questa vicenda ha generato un braccio di ferro tra i due Paesi sul segreto bancario. Sotto l'enorme pressione di Washington, Berna finirà per cedere. 

Dalla caduta del segreto bancario, come è cambiata l'attitudine della Svizzera?

Ci sono stati incontestabilmente dei progressi nella lotta al riciclaggio. L'ho constatato di persona. C'è stata un'evoluzione positiva, non solo a Ginevra, ma anche a Berna dove, dopo la riforma e la creazione del Ministero pubblico della Confederazione, si sono centralizzate le inchieste sulla criminalità finanziaria transnazionale. C'è però un nuovo problema.

Quale?

La piazza finanziaria elvetica ha operato una delocalizzazione. Delle banche e delle fiduciarie hanno mantenuto i loro clienti, ma hanno preso delle precauzioni: hanno messo i soldi in conti aperti altrove, a Singapore, Hong Kong o Dubai, spesso attraverso l'utilizzo di società panamensi. Si tratta di una finzione volta a eludere le regole della cooperazione giudiziaria. Fiduciarie e banche svizzere dispongono del savoir faire e conoscono i loro clienti: continuano a gestire i loro fondi, ma subappaltano la parte bancaria a istituti basati in queste nuove piazze rifugio. È questa la nuova ingegneria messa in atto a partire dal 2009, destinata a preservare l'opacità delle operazioni e a mettere i clienti al riparo da ogni indagine fiscale o giudiziaria.

Ciò che conferma che la lotta ai paradisi fiscali, per essere efficace, non può che essere mondiale...

Esattamente. Ci sono voluti anni per fare in modo che i rifugi europei come la Svizzera, il Lussemburgo o il Liechtenstein accettino di collaborare, seguendo il cammino tracciato da Ginevra negli anni Novanta. Ma in Europa, paesi come Cipro e Malta resistono. Senza contare il resto del mondo: i Caraibi, Singapore o Dubai, che è ormai il nuovo Eldorado.

Venticinque anni dopo l'Appello di Ginevra, a suo modo di vedere, a livello internazionale, c'è la volontà politica per eradicare i paradisi fiscali?

In effetti solo una volontà politica collettiva e determinata può riuscire in questo compito. Era in filigrana il senso dell'Appello di Ginevra. Un quarto di secolo fa eravamo qualche giudice e qualche procuratore. È tempo ormai di estendere l'azione ed esigere dai paesi rifugio una trasparenza totale per mettere fine al riciclaggio della frode e del crimine. Certo, ci sono stati dei progressi, soprattutto in Europa. Ma bisogna spingersi oltre nella lotta al riciclaggio che è un problema transnazionale. Purtroppo, penso che non ci sia la volontà politica, su scala internazionale, per eradicare i paradisi fiscali e imporre sanzioni commerciali a piazze come Dubai. E fintanto che non ci sarà questa volontà politica, ci sarà sempre il riciclaggio.

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