USA

Donald Trump ritira un terzo delle truppe da Afghanistan e Iraq

Il presidente uscente riduce i contingenti, ma gioca con l'idea di un attacco contro l'Iran per impedirne il riarmo nucleare

(Keystone)
17 novembre 2020
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‘America first’. Prima di andarsene dalla Casa Bianca, Donald Trump vuole mantenere la promessa di riportare a casa i soldati americani dai fronti di Afghanistan e Iraq. E anche se nel frattempo giocherella con la balzana idea di attaccare l'Iran per punirne il timido riarmo nucleare, la notizia principale è la ritirata: entro il 15 gennaio 2021, cinque giorni prima di lasciare il potere a Joe Biden, il presidente uscente intende richiamare dai teatri mediorientali 2'500 soldati.

Non saranno dunque tutti a casa per Natale, come aveva scritto in ottobre il twittatore in chief: si parla della riduzione ‘solo’ d’un terzo dell’impegno che oggi vede schierati 4’500 soldati in Afghanistan e 3mila in Iraq (diventerebbero 2’500 in ciascun paese). È significativo che ad annunciare la decisione sia stato quel Christopher Miller che ha sostituito la settimana scorsa il Segretario della Difesa Mark Esper, per nulla convinto dall'idea di un ulteriore disimpegno. 

Come molti osservatori, Esper si era detto particolarmente preoccupato dalla situazione in Afghanistan, nazione divisa che rischia di tornare nelle mani dei Talebani; gli stessi che dopo l’11 settembre 2001 avevano spinto l’allora presidente George W. Bush a piantare gli stivali nel fango. Sappiamo poi com’è andata, ma secondo Esper – che aveva affidato a un memo interno le sue perplessità – non ci sarebbero ancora le condizioni per una riduzione delle truppe. Un giudizio condiviso dalla catena di comando, inclusi il generale dei marine e capo del Comando centrale, il Generale Kenneth McKenzie, e il comandante della missione Nato in loco, il Generale Austin Miller. Perfino il leader della maggioranza al Senato Mitch McConnell – il quale sostiene ancora Trump, forse più per opportunismo che per convinzione – aveva paragonato le promesse sui social “all’umiliante partenza da Saigon nel 1975”.

Ma Trump deve aver deciso che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla fare ai suoi generali, o almeno a quelli che non la pensano come lui. Non si spiegano altrimenti le ‘purghe’ effettuate alla Difesa subito dopo la sconfitta elettorale, con la promozione a policymaker di un manipolo di fedelissimi quali il Generale Anthony Tata – secondo cui Obama sarebbe un terrorista musulmano – e Michael Ellis, diventato consigliere per la Sicurezza nazionale. 

Un cambiamento che ha permesso di accelerare una ritirata almeno parziale, per far vedere che si sta chiudendo il libro su vent’anni di ‘regime change’, sebbene rischiando di schiacciare tra le pagine i civili inermi. Difficilmente, infatti, un indebolimento della stampella americana sarà compensato dalle forze locali o da quelle degli altri alleati Nato, che dipendono proprio dalla struttura Usa per molte missioni e potrebbero accodarsi all’exit strategy.

Questo nonostante Miller prometta che il rientro delle truppe “non equivale a un cambiamento” nelle politiche e negli obiettivi strategici di Washington: “Non si riducono le nostre capacità”, ha tagliato corto. Nei giorni scorsi si era parlato anche di un prosciugamento del contingente di 700 soldati in Somalia, paese prossimo alle elezioni e minacciato da al-Shabaab, alleato di Al Qaeda: un’ipotesi che resta da confermare. 

Nel frattempo, il ‘New York Times’ riporta anche qualche tentazione aggressiva d’un Trump che vuole lasciare agli storici più materiale possibile. Nello specifico, il presidente avrebbe valutato l’ipotesi di un attacco contro le infrastrutture nucleari iraniane, in particolare quella di Natanz. Questo dopo che nei giorni scorsi l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) aveva stimato le riserve d’uranio della repubblica islamica a un livello 12 volte superiore a quanto permesso dall’accordo di Vienna del 2015. Ovvero quell’accordo multilaterale che doveva essere il fiore all’occhiello della politica estera di Barack Obama, ma è stato abbandonato dal suo successore nel 2018. Col risultato che ora anche Teheran se ne approfitta e potrebbe essere capace d’allestire due testate nucleari, anche se ci vorrebbero mesi.

Secondo Trump, evidentemente, a questo punto un attacco missilistico o informatico otterrebbe più di mille trattative. Ma i gallonati che lo circondano temono una forte destabilizzazione dell’intera area: così la pensano il capo di Stato maggiore Mark Milley, il vicepresidente Mike Pence, il Segretario di Stato Mike Pompeo – quello secondo il quale “ci sarà un’agevole transizione verso un secondo mandato di Trump” – e perfino lo stesso Christopher Miller. 

Difficilmente un attacco militare sarebbe ben visto dalla base di Trump, che preferisce l'isolamento. Allo stesso tempo, proprio in Medio Oriente il presidente ha ottenuto il suo massimo successo diplomatico: la ricostituzione di alleanze tradizionali con Israele, Egitto e Arabia Saudita, la loro estensione agli Emirati, al Bahrein e al Sudan, e quindi il riconoscimento d’Israele da parte dei maggiori attori della regione. È probabile che i suoi consiglieri siano riusciti a convincerlo a non metterlo a rischio proprio ora.

Resta da chiedersi se dobbiamo aspettarci qualche colpo di coda più clamoroso nella politica estera presidenziale. Ma il tempo stringe e sul cammino della Casa Bianca restano personaggi di una certa statura come Milley e McKenzie, che sarà difficile spingere ad azioni avventate. Forse.

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