laR+ Stati Uniti

Razzismo, ecco perché lo stop dello sport Usa è senza precedenti

In 4 anni è cambiata l'opinione della gente. Ma anche la stagione 'azzoppata' dal Covid aiuta. Il problema: 'È culturale'. Invervista a Francesco Costa

La star dei Los Angeles Lakers LeBron James indossa una maglietta con la scritta "Non riesco a respirare", ultime parole di George Floyd mentre moriva sotto il ginocchio di un poliziotto (Keystone)
28 agosto 2020
|

Negli Stati Uniti gli sportivi sono tornati a far sentire con forza la loro voce nel dibattito sulla discriminazione razziale. E per caso lo hanno fanno esattamente quattro anni dopo il gesto dell’ex giocatore di football Colin Kaepernick, inginocchiarsi durante l’inno americano per protesta. Allora il dissenso di Kaepernick, pur imitato da altri, fu fondamentalmente condannato dai più e, nel totale imbarazzo, la National Football League aveva persino ventilato l’ipotesi di obbligare per regolamento tutti i giocatori a stare in piedi. 

A quattro anni di distanza il vento sembra essere drasticamente cambiato, tanto che le reazioni ai clamorosi gesti di protesta intrapresi in queste settimane da molti sportivi, trainati in particolare da quelli della Nba, sono quasi diametralmente opposte. La scelta dei giocatori dei Milwaukee Bucks (la migliore squadra di basket della stagione regolare) di nnon scendere per nulla in campo mercoledì scorso non solo ha trovato emuli nella Nba, ma persino nella Major League di baseball e nella  Major League di calcio, con numerose partite rinviate. Anche le stesse squadre hanno preso posizione, con le due principali compagini di Los Angeles che avrebbero addirittura chiesto di interrompere in maniera definitiva l’attuale stagione. Persino la Nhl, il campionato di hockey su ghiaccio dove la presenza di afroamericani è molto bassa, ha deciso di rinviare tutte le partite di giovedì e venerdì in segno di solidarietà.

Cose mai viste nello sport statunitense. E poco cambia la decisione di riprendere le competizioni nel fine settimana presa ieri quando in Europa la serata stava ormai finendo.

'A cambiare è stata l'opinione pubblica'

Insomma, sembra che in soli quattro anni si è passati dal rifiuto alla condivisione istituzionale della protesta. Cosa è cambiato? Lo chiediamo a Francesco Costa, vicedirettore del Post ed esperto di questioni americane: «Sono cambiate un bel po’ di cose. Intanto è cambiata l’opinione pubblica: i sondaggi mostrano come, dopo la morte di George Floyd a seguito del suo arresto, una larga fetta di americani, compresi molti sostenitori del presidente Donald Trump, vogliano dei cambiamenti». Un sentimento popolare che le squadre sportive non vogliono contraddire, perché per loro non sarebbe positivo. «L’attenzione delle persone sulla questione del razzismo oggi è particolarmente alta; le società, gli sponsor e le leghe sanno che qualsiasi altra posizione che non sia di condanna può essere dannosa dal punto di vista dell’immagine. E, di conseguenza, da quello economico». 

A facilitare le rivendicazioni dei giocatori è stato comunque anche il Covid, e la stagione bislacca e senza pubblico che ne è derivata: «Molti cestisti nemmeno volevano riprendere a giocare, per cui hanno chiesto come contropartita di poter prendere posizione sull’argomento». Sui parquet della Nba è quindi apparsa la scritta “Black Lives Matter” mentre molti sono tornati a genuflettersi durante l’inno, senza nessuna conseguenza. Certo, «rinunciare parzialmente a questa stagione, azzoppata dal coronavirus, è sicuramente più facile anche per le squadre e le leghe, ma ciò non toglie che quanto sta succedendo è senza precedenti».

'Fa passare il messaggio ai giovani'

La discesa in campo in massa dello sport statunitense «non avrà un grande impatto politico o non accelererà necessariamente il cambiamento». Eppure, secondo Costa, avrà sicuramente l’effetto di esporre il problema anche a chi sinora non ne era a conoscenza: «Gli Stati Uniti sono un paese enorme e sicuramente ci sono persone che non sono informate su quanto è successo, per esempio, a Jacob Blake (ferito con sette colpi di pistola alla schiena da un poliziotto mentre stava salendo in auto, in contrasto con gli ordini datigli dall'agente, ndr.)». Il clamoroso rinvio di una partita, potrebbe portare la notizia alla loro attenzione, mentre l’intervento personale delle grandi stelle dello sport sui social fa presa sui giovani. I giovani «che apprenderanno quanto successo non dai telegiornali (che non guardano) o dai giornali (che non leggono), ma da propri idoli».

La narrativa dei manifestanti violenti e della polizia che reprime indiscriminatamente

Quattro anni or sono le reazioni alle prese di posizione degli sportivi erano state veementi e negative. Oggi i contrari sembrano aver perso buona parte della loro voce. «Certamente una parte del paese è pronta a spazientirsi se la situazione andrà avanti così per molto, ma allo stato attuale non si sentono critiche». Intanto le proteste dello sport si aggiunge a quelle di piazza in corso da fine maggio (oggi è prevista la grande manifestazione a Washington organizzata dal movimento ‘Black Lives Matter’). Proteste, sottolinea il nostro interlocutore, capaci di «mettere sotto pressione chi può decidere, come sindaci, commissari di polizia e parlamentari». 

Con un “ma”: «Ogni immagine di scontri e saccheggi è un modo per far sembrare che i manifestanti, come minimo, siano tutti teppisti. Invece - a fronte di una minoranza agguerrita di estrema sinistra ed estrema destra – la maggior parte di chi protesta lo fa pacificamente». Esagerazioni da una parte, esagerazioni dall’altra, con anche i poliziotti additati come violenti repressori di pacifiche proteste quando invece «la stragrande maggioranza degli agenti fa bene il proprio lavoro». Un lavoro svolto in una quotidianità diversa da quella dei colleghi europei: «La grande diffusione di armi negli Usa fa sì che ogni agente debba dare per scontato che qualsiasi persona sia armata. Il problema è che questo assunto viene applicato diversamente per i bianchi e per gli afroamericani. Basta un esempio per capire il concetto: a Kenosha, Blake si è preso sette colpi di pistola in schiena perché avrebbe potuto in teoria avere un’arma in auto, mentre il 17enne bianco arrestato con l'accusa di aver ucciso due manifestanti neri nella stessa cittadina qualche giorno dopo è passato davanti alle auto della polizia con il fucile in bella vista, senza nemmeno venir considerato una minaccia. Tant’è che è stato fermato solo il giorno successivo».

Un problema di retaggio culturale

Il vero nemico da combattere è il retaggio di secoli di supremazia bianca e di segregazione degli afroamericani. «Negli Usa nascere nero vuol dire nascere in un quartiere costruito apposta per essere un ghetto, dove le scuole sono le peggiori di tutte e non danno accesso ai college». Insomma: si nasce e si rimane sfavoriti a vita. Con Barak Obama, primo presidente di origini africane della storia americana «qualcosa è cambiato. Il che però ha provocato la forte reazione dei bianchi che si sono trovati a dover fare i conti con un paese dove le varie minoranze prendevano sempre più piede». Già adesso, sommando le varie etnie, gli Usa non sono certamente "bianchi". Una constatazione che ha evidentemente generato timore in quella che è abituata a sentirsi l'élite e che spiega, secondo Costa, almeno in parte l'elezione di Donald Trump. Azione e reazione. Reazione come le grandi proteste in corso contro razzismo e violenza della polizia, le maggiori dagli anni Sessanta. Reazioni come quelle, senza precedenti, degli sportivi e dello sport a stelle e strisce, guidati nella lotta dalla Nba. Ovvero la lega sportiva con maggiore presenza di afroamericani.

Leggi anche:
Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔
POTREBBE INTERESSARTI ANCHE