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Schiavi nei campi, confinati a casa

Agricoltura, il sindacalista italiano Davide Fiatti auspica una regolarizzazione dei migranti e dei contratti di lavoro

Con il coronavirus lo sfruttamento resta come congelato, ma i problemi restano (depositphotos)
27 aprile 2020
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Mentre il coronavirus minaccia il lavoro agricolo e mezz’Europa si preoccupa – spesso esagerando – di avere ancora verdura nel piatto, vien da pensare a quelli che normalmente gliela raccolgono. Se si guarda a certe realtà italiane, c’è di che farsi passare l’appetito: abbiamo tutti in mente le immagini dei furgoncini stipati di schiavi africani, i ‘caporali’ che fanno da intermediari tra latifondisti e manodopera col beneplacito delle mafie, le baraccopoli, i tentativi di pulizia etnica in posti come Rosarno, vicino a Reggio Calabria. Ora che il coronavirus ha bloccato gli spostamenti sul territorio lo sfruttamento resta come congelato, ma i problemi restano, anzi. Ne parliamo con Davide Fiatti, segretario nazionale della Federazione Lavoratori Agroindustria del sindacato Cgil.

Fiatti, secondo il vostro Osservatorio – intitolato alla memoria della vittima di mafia Placido Rizzotto – il tasso di irregolarità dei rapporti di lavoro nell’agricoltura italiana è del 39%: parliamo di oltre 400mila persone. Probabilmente, però, non tutte le situazioni sono paragonabili a quelle che riempiono le pagine di cronaca nera.

Ci sono diverse forme di sfruttamento. C’è chi beneficia di un contratto apparentemente regolare, ma deve fare più ore o restituire al datore di lavoro una parte del salario: si tratta anche di molti italiani e di stranieri provenienti dall’Unione europea, in particolare Bulgaria e Romania. Poi c’è il lavoro nero vero e proprio, anche col sistema dei ‘caporali’ – spesso della stessa nazionalità degli sfruttati, ma controllati dalle mafie locali – che arrivano a garantire ‘braccia’ per tre o quattro euro l’ora, contro i circa 9 euro medi dei contratti regolari, e magari esigono anche una parte di quella cifra per portare i lavoratori nei campi e dar loro un panino e un po’ d’acqua. Particolarmente vulnerabili e ricattabili sono i migranti senza permesso di soggiorno.

Le loro storie sono tra quelle dei 67mila – a fronte di oltre 400mila stranieri regolari e ‘irregolari’ nell’agricoltura – che hanno un “rapporto di lavoro informale”. Ovvero senza diritti. Come attraversano l’emergenza?

Parliamo di persone che vivono in ghetti, baraccopoli, casolari abbandonati, locali angusti. Da un punto di vista sanitario, si tratta di una bomba a orologeria. Alla promiscuità e alle condizioni igieniche precarie si aggiunge il fatto che la legge italiana criminalizza chi non ha un permesso di soggiorno, che quindi è scoraggiato dal recarsi in ospedali nei quali a volte c’è perfino un posto di Polizia ad attenderli. Tutto quello in cui possono sperare è il fatto che per ora al sud – dove se ne concentra la maggior parte – la situazione epidemica sembra meno grave che al nord. E che ci sono comunque organizzazioni come Emergency e Medici senza frontiere che offrono loro un supporto sanitario di base.

Quali sono i problemi di convivenza con la popolazione ‘locale’?

Si rischiano anche focolai di scontro sociale tra migranti e cittadini italiani, che già in molti casi mal sopportano la presenza di ghetti e situazioni di degrado. Soprattutto in regioni come la Calabria e la Puglia – dove la presenza è molto forte e più concentrata nelle baraccopoli che in Campania e in Sicilia – c’è il pericolo che eventuali emergenze sanitarie possano scatenare una caccia all’untore.

Possono lavorare?

No, non possono spostarsi per recarsi nei campi. È chiaro che questo avrà un impatto sui raccolti: non ora ma fra una quindicina di giorni, quando inizieranno le raccolte più grandi. E non sarà facile sostituirli con disoccupati o altro personale. A questa carenza si aggiunge quella di chi viene dall’est Europa, ha un permesso ma talora vive in condizioni solo marginalmente migliori. L’Unione europea ha istituito ‘corridoi verdi’ per permettere a queste persone di raggiungere i datori di lavoro, è vero. Ma è anche vero che questa stessa agevolazione spinge bulgari e rumeni a preferire la Germania, dove le paghe sono più alte. È possibile aspettarsi una carenza di manodopera fino al 25%.

C’è chi sostiene che allora si potrebbero impiegare gli italiani.

Non è così facile. Intanto non si può costringere nessuno a fare un lavoro, neanche i disoccupati. Poi, nei casi più estremi, è evidente che nessuno sarebbe disposto a sottostare alle stesse condizioni di questi migranti.

Qual è l’auspicio dei sindacati?

Si tratta di intervenire contemporaneamente su due livelli di regolarizzazione: quella dei migranti e quella dei contratti di lavoro. Nel primo caso occorre urgentemente superare una legge come la Bossi-Fini, che criminalizza l’immigrazione. Poi però bisogna anche fare riemergere dall’illegalità i rapporti di lavoro. Oggi, anche un datore di lavoro onesto rischia di vedersi incentivato a rivolgersi al lavoro nero e ai caporali: in assenza di uno Stato che fornisca un luogo d’incontro tra domanda e offerta e in caso di fabbisogno urgente – com’è nella natura di un settore dominato dalla stagionalità e dal meteo –, può essere tentato di rivolgersi a chi garantisce braccia ‘chiavi in mano’, senza doversi preoccupare di contratti, trasporti e a volte neppure della gestione dei pagamenti. Lo stesso vale per i molti lavoratori che non sanno a chi rivolgersi per trovare regolarmente lavoro. Per questo bisognerebbe ricostituire piattaforme pubbliche – anche digitali – che permettano un incontro immediato tra domanda e offerta di lavoro nella piena legalità.

Non bisognerebbe anche rendere più flessibile quell’incontro, ad esempio consentendo pagamenti con i famosi voucher, che permettono di retribuire prestazioni ‘una tantum’ in modo rapido e regolare?

In realtà, questa flessibilità esiste già: tutte le forme contrattuali riconoscono il carattere eccezionale del lavoro agricolo, che può servire anche per un giorno solo, da un giorno all’altro. Così come esistono i voucher per gli studenti, i pensionati e chi lavora in ammortizzazione sociale (disoccupati e persone in cassa integrazione, ndr). Non vorrei che la polemica sui voucher diventi una scusa per deviare il dibattito da una discussione più organica sulla tutela dei lavoratori.

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