L'approfondimento

Trent’anni fa la Storia non finì

La ‘caduta del Muro’ di Berlino, seguita, nel 1991, da quella dell’Urss, fu interpretata come la vittoria del modello democratico-capitalista. Che abbaglio

Il varco (Keystone)
8 ottobre 2019
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No, la storia non finì il 9 novembre 1989, e nemmeno il 26 dicembre 1991. L’enorme portata simbolica della “caduta del Muro di Berlino” e della lenta discesa della bandiera rossa dal pennone del Cremlino, di due anni posteriore, fecero dire e scrivere che il mondo aveva raggiunto un approdo definitivo, che anche la Storia poteva ormai tirare i remi in barca.

In pochi anni, però, si rivelarono illusoria la natura di tanti entusiasmi e distorte le affrettate proiezioni sul futuro formulate mentre i cittadini di Berlino est sciamavano attraverso i varchi nel muro verso il mondo “libero”.

Ma ci fu anche chi da subito avvertì che la “caduta del Muro” non andava confusa con il compimento di un disegno salvifico. Norberto Bobbio, per dirne uno: “O illusi, credete proprio che la fine del comunismo storico (insisto sullo ‘storico’) abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia?”. E storici come Marcello Flores, che al “secolo mondo” ha dedicato gran parte della propria ricerca, indagandone soprattutto una delle sue forme più peculiari, il totalitarismo.

Professore, “caduto il Muro” (e ancor più alla fine dell’Urss) si parlò di “fine della storia” e della nascita di un nuovo mondo. “Libero”, benché sotto l’ala protettrice della sola potenza egemone rimasta. Considerandole a trent’anni di distanza si può dire che si trattò di affermazioni arroganti, o di mere illusioni?

Già allora ritenni quelle affermazioni arroganti e stupide, ancora vincolate alla logica della Guerra Fredda, secondo la quale si usciva vincitori o sconfitti. Ma proprio il modo in cui è crollato l’impero sovietico, più degli eventi in Europa orientale, mostrava come in realtà si andava verso un nuovo multipolarismo. I Paesi ex sovietici dell’Asia centrale si muovevano in una certa direzione, mentre Ucraina e Bielorussia in tutt’altra, e i Baltici in un’altra ancora. E in quello stesso Ottantanove – benché ci sia rimasta solo l’immagine del dramma di Piazza Tienanmen – la Cina stava imboccando un percorso che l’avrebbe condotta ad imporsi come grande potenza capitalista.

Pensare allora che si stesse affermando un mondo unipolare o che la Storia fosse “finita” fu effettivamente avventato.

Il multipolarismo nato in quella temperie sembra comunque avere dato luogo a un sistema di relazioni confuse e conflittuali. Un disordine inevitabile, destinato a durare? Certamente ne è scaturita una situazione di disordine mondiale, ma non la definirei caotica. Anzi, tutto sommato questo multipolarismo è riuscito a tenere localizzate (pur nella dimensione tragica per le aree interessate) guerre e conflitti. Un contesto che ha rivelato come ormai la dimensione sempre più globale dell’economia, delle comunicazioni e della tecnologia fosse un dato storico da cui non si poteva più prescindere.

L’elemento caotico del multipolarismo si è semmai rivelato dopo la crisi del 2008, quando è stato chiaro che ogni Paese si sarebbe mosso cercando di ottenere un proprio esclusivo vantaggio. Manca, in questo senso, una visione più ampia e globale. Forse immediatamente dopo il 1991 l’ebbe l’Unione europea che però, priva di una forza politica, economica e militare, non è riuscita a imporsi come potenza omogenea. Il che spiega anche il proliferare dei movimenti nazionalisti che oggi ne contestano l’esistenza stessa.

Una situazione che avrebbe bisogno di una capacità di visione analoga a quella che si manifestò nel secondo dopoguerra un po’ in tutto il mondo e che era stata propria dell’Ue nel suo farsi. Ma a mancare è una dirigenza mondiale all’altezza del compito. D’altra parte, se al posto di Roosevelt c’è Trump, e in quello di Churchill c’è Johnson, non c’è da stupirsi oltremodo.

A distanza di tre decenni dalla fine della Guerra Fredda, il confronto non è più tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, ma tra i primi e la Russia. Vuol forse dire che il conflitto ideologico era in realtà un più classico conflitto di potenza?

Può essere, ma credo più importante sottolineare che se la Russia avesse scelto coerentemente un percorso democratico, il porsi anche in modo antagonista nei confronti degli Stati Uniti o dell’Unione europea avrebbe avuto un senso e anche maggiori possibilità di ottenere in qualche modo dei successi. Una rivendicazione legittimata dall’aver percorso fino in fondo il cammino verso la democrazia.

Al contrario, l’imposizione di un assetto autoritario, con ambigue e continue manifestazioni di nostalgia di un passato in cui si confondono, esaltandoli, zarismo ed epoca sovietica – di cui Vladimir Putin è il regista – ha finito per rivelare la gravi debolezze di cui patisce la Russia.

I suoi problemi sono enormi, soprattutto sociali ed economici, cosicché l’atteggiarsi a grande potenza un po’ scimmiotta quello che faceva l’Unione sovietica, ma senza averne la forza militare, e soprattutto mancando della grande forza ideologica del mondo comunista esteso a parti importanti del pianeta. Oggi la Russia dispone solo di se stessa e della tradizione: poco per le sue ambizioni. Tanto che il vero confronto strategico è quello tra Stati Uniti e Cina. Ma anch’esso non è il solo da cui dipende la politica internazionale, condizionata da potenze regionali in grado di dettare l’agenda, dall’India alla stessa Europa, dall’Iran a Israele.

La fretta di dichiarare chiusa l’epoca delle ideologie (con cui in sostanza si intendeva il comunismo) non ha prodotto più confusione che chiarezza di pensiero, finendo per assicurare l’egemonia ideologica del mercato? Direi che ad affermarsi è stato un tipo preciso di ideologia liberista o neoliberista. Che probabilmente si è imposta perché l’ideologia sconfitta, il comunismo, o in senso lato la sinistra – un dramma che continua ancora oggi – non è stata capace di proporre una visione democratica del capitalismo che proseguisse, aggiornandola, la tradizione socialdemocratica degli anni 60/70. La possibilità e la necessità di concepire uno sviluppo del capitalismo in modo diverso da come lo avevano disegnato negli anni Ottanta Reagan e Thatcher non sono state colte adeguatamente, e oggi l’affermazione dei figli e dei nipoti di Thatcher e Reagan fa dire a molti: abbiamo buttato via il bambino con l’acqua sporca, cosicché un po’ di nostalgia di socialismo “reale” è tornata a farsi strada, benché non abbia nulla da offrire: o è una parodia dello statalismo (che la stessa Cina sta lasciando), o non si capisce che cosa possa essere se non un generico discorso di uguaglianza, che storicamente non è mai stato prerogativa esclusiva dei comunisti. In Europa quella che fu la cortina di ferro sembra essere oggi ricalcata da una faglia di nazionalismi che rimettono in discussione lo stesso orizzonte di liberazione rappresentato dall’Europa a cui anelavano gli stati del patto di Varsavia ormai “liberi”. Come spiegarlo?

Francamente non condivido la visione dei Paesi dell’Europa dell’est come un’area passata direttamente dal comunismo al nazionalismo, o sovranismo, come lo si vuole chiamare. Queste forme che troviamo così spiccate in Polonia, Ungheria – ma non nella Repubblica Ceca, né in Slovacchia, in Romania o Bulgaria – sono le stesse che si manifestano negli Stati Uniti, nel Regno Unito, e in dimensioni meno spiccate anche in Francia, Italia e Germania.

Si tratta allora di capire meglio guardando avanti piuttosto che indietro. È ovvio che l’eredità del passato conta, ma è più importante cogliere le dinamiche dell’oggi, nate prima e poi accelerate dalla crisi del 2008. In questo caso privilegerei l’approccio sociologico piuttosto che quello storico. La Storia, in questi caso, rischia di far pensare che in essa si trovino non solo le spiegazioni ma anche le soluzioni.

L’equiparazione nazismo-comunismo affermata dalla risoluzione dell’Europarlamento ha un qualche fondamento storico?

Ho letto e riletto quella risoluzione. E devo dire che non ho trovato l’equiparazione di cui tanto si è parlato. La sola esistente concerne le vittime dei totalitarismi, per la cui memoria si chiede rispetto. È un discorso che peraltro l’Europa fa da anni, quando sollecita la formazione di una memoria comune.

La cosa sbagliata, semmai, è l’iniziale presa di posizione nei termini di giudizio storico. Questo ovviamente non può spettare a un Parlamento che pretende di dire come è scoppiata la Seconda guerra mondiale. Francamente non si può affermare che a scatenare il conflitto fu il patto russotedesco, benché sia vero che quel patto assicurò a Hitler un vantaggio strategico. E naturalmente è stato uno sbaglio concedere questo “contentino” a quei Paesi dell’ex Patto di Varsavia che cercavano un qualche riconoscimento nazionale attraverso la risoluzione. Paesi, non scordiamolo, governati da forze politiche di destra. Vorrei però dire che le sinistre ancora una volta sono state a rimorchio. Non hanno mai preso un’iniziativa in questo campo, e ora cercano di metterci una pezza alimentando la polemica. Perché non arrivarci prima?.

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