Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica sono sempre più alla ricerca di una propria via di crescita
A fine agosto si è tenuto, a Johannesburg, il 15esimo vertice dei Paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che però non è stato seguito con particolare attenzione dalla stampa occidentale. Come invece avrebbe meritato.
Il primo punto emerso è che dal 2024 ai Brics dovrebbero aggiungersi Arabia Saudita, Argentina, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Etiopia e Iran. Oggi i cinque Paesi fondatori del Brics rappresentano oltre il 40% della popolazione mondiale e circa il 32% del Prodotto interno lordo globale (vedi grafico). Nel 2021 la loro quota del Pil mondiale ha superato quella del G7. Con i nuovi arrivati il loro ruolo economico si accrescerà ulteriormente anche se l’indiscussa locomotiva di questa crescita sono la Cina e – in misura crescente nei prossimi anni – l’India.
L’altro elemento importante discusso a fine agosto è la creazione di una moneta che dovrebbe rappresentare un’alternativa al dollaro. Le economie di questi Paesi hanno già sviluppato istituzioni di integrazione economica e finanziaria come l’istituzione della Nuova Banca di Sviluppo (Nbd), con sede a Shanghai, che fornisce finanziamenti per progetti infrastrutturali e di sviluppo sostenibile nei Paesi membri. Hanno anche rafforzato la cooperazione economica attraverso iniziative come il Business Council e il Forum di Cooperazione Economica Brics, con l’obiettivo di consolidare la cooperazione tra imprese e promuovere gli investimenti reciproci. Ma la vera sfida, dicevamo – anche se per ora è in fase embrionale –, è quella di creare una moneta alternativa al dollaro con l’obiettivo di agevolare gli scambi tra i Paesi Brics, evitando la necessità di dipendere dalla valuta di una terza nazione e non sempre amica.
Per capire le implicazioni di questa nuova moneta è necessario ripercorrere brevemente gli ultimi 70 anni di storia. Nel 1944, a Bretton Woods, i Paesi che l’anno seguente avrebbero vinto il secondo conflitto mondiale si riunirono per definire il nuovo assetto economico e finanziario. Per regolare gli scambi internazionali furono messe in discussione due ipotesi: la prima, sostenuta dal capo della delegazione inglese, l’economista John Maynard Keynes, che perorava la necessità di creare una nuova moneta sovranazionale, da lui chiamata Bancor, che avrebbe garantito stabilità negli scambi anche grazie a oscillazioni dei cambi limitati al 5%; la seconda, avanzata dal capo della delegazione Usa, Harry Dexter White, proponeva invece la creazione di un fondo di stabilizzazione alimentato da sottoscrizioni (quote) dei Paesi membri, con il dollaro come moneta di riferimento. Vinse la proposta Usa, anche perché la imposero in qualità di nazione che ebbe un ruolo fondamentale nella vittoria della Seconda guerra mondiale.
Furono così creati la Banca Mondiale e soprattutto il Fondo monetario internazionale (Fmi), che avrebbe dovuto garantire cambi fissi grazie al rapporto fra la valuta cardine, il dollaro, e l’oro (fissato nella parità di 35 dollari per oncia). I tassi di cambio erano modificabili solo in caso di squilibrio fondamentale della bilancia dei pagamenti. Il tutto funzionò relativamente bene fino al mese di agosto del 1971, quando il presidente Nixon fu costretto a dichiarare la fine della copertura aurea del dollaro (a causa del forte aumento degli scambi internazionali e degli enormi costi della guerra in Vietnam), sancendo così il passaggio da un sistema di cambi fissi a uno a tassi flessibili. Dagli anni Settanta in poi il Fmi assunse sempre di più il ruolo di stabilizzatore ex post del sistema internazionale, intervenendo cioè quando si presentavano problemi di bilancio insostenibili per i Paesi membri. Ma invece di risolverli, accentuò le difficoltà in particolare delle economie più deboli perché la concessione degli aiuti era vincolata da “aggiustamenti strutturali” che obbligavano Paesi strutturalmente deboli a liberalizzare i loro sistemi economici. Quando, invece, necessitavano di una guida pubblica per consolidare la loro economia. Questa posizione dell’Fmi creò molti malcontenti e un progressivo allontanamento tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo.
Benché in calo, il dollaro continua ad avere un ruolo importante: a fine 2022 era al primo posto con il 58,36% delle riserve valutarie mondiali mentre nel 2000 la quota era del 71,13%. L’euro ha sicuramente contribuito a questa contrazione senza però scalfirne la superiorità internazionale. La centralità del dollaro offre agli Stati Uniti benefici economici importanti. Il suo utilizzo diffuso nel commercio internazionale e come riserva valutaria garantisce a Washington, da una parte, l’“esorbitante privilegio” di commerciare con l’estero nella propria valuta, finanziando un grande disavanzo commerciale senza particolari rischi monetari e, dall’altra, quello di indebitarsi a tassi particolarmente favorevoli. Ciò consente agli Usa di finanziare un deficit persistente della bilancia commerciale con l’afflusso di capitali dall’estero: in sostanza, gli americani vivono al di sopra dei propri mezzi, acquistando sui mercati internazionali più beni e servizi di quelli che sono in grado di vendere, cedendo in cambio titoli.
L’utilizzo del dollaro nei commerci, soprattutto di materie prime, impone alle banche centrali di tutto il mondo il mantenimento di riserve valutarie in dollari per garantire il finanziamento delle importazioni, il che riduce i tassi d’indebitamento degli Stati Uniti.
A seguito della loro crescente importanza economica, i Paesi Brics hanno chiesto a più riprese una revisione delle istituzioni monetarie internazionali ma senza ottenere grandi risultati. Usa ed Europa non possono permettersi di perdere la loro supremazia. Soprattutto gli Stati Uniti utilizzano regolarmente il ruolo internazionale della loro moneta come strumento politico per imporre sanzioni a quei Paesi che non aderiscono alla loro visione politica. Nella realtà quasi tutti i Paesi devono adeguarsi alla “visione” americana, come sappiamo anche noi svizzeri.
Naturalmente questo approccio non fa la felicità di molte nazioni e in particolare quelle in via di sviluppo e con una visione ‘alternativa’ come nel caso della Cina.
Proprio il peso della Cina all’interno dei Paesi Brics potrebbe portare alla creazione di un Renminbi digitale, che avrebbe numerosi vantaggi ma anche alcune debolezze. Il vantaggio è che si tratta di un’economia solida (la seconda a livello mondiale) ma porrebbe probabilmente gli stessi problemi del dollaro, costringendo gli altri Paesi ad adeguarsi alle strategie cinesi.
Sicuramente la sfida più importante è rappresentata dal fatto che gli Usa non vorranno perdere il loro vantaggio e faranno tutto quanto potranno per difendere lo status quo. Avvisaglie ne abbiamo già ora con la “guerra” commerciale che mira a indebolire il ruolo del gigante asiatico, in realtà con scarse possibilità di successo come dimostra il recente dietrofront dell’Australia.
Ma già in passato gli Usa hanno usato la mano pesante per difendere i loro interessi. Si sussurra, ad esempio, che le armi di distruzione di massa (come oggi sappiamo, inesistenti) fossero una scusa ‘plausibile’ per dichiarare guerra all’Iraq ma che in realtà l’intenzione era impedire a Saddam Hussein di convertire le sue riserve (enormi) di dollari in euro. Nonostante le premesse favorevoli, la moneta unica europea non è mai realmente decollata anche se oggi rappresenta circa il 20% degli scambi internazionali, pur rappresentando un gruppo di Paesi con un Pil superiore a quello Usa.
Ma forse la sfida maggiore per i Brics è al loro interno. Salvo Brasile e in parte India, questi Paesi (compresi quelli che dovrebbero aggiungersi) non sono famosi per la loro democrazia e per la loro stabilità politica ed economica. Questo potrebbe creare non pochi problemi anche se la storia ci insegna che non sempre democrazia e libertà sono garanzie di successo e che Paesi “dirigisti” come la Cina possono raggiungere traguardi economici importanti. Con questa lettura ‘democratico-centrica’ rischiamo di essere limitati dalla nostra visione, ma non è detto che altre strade siano percorribili.
In ogni caso non sarà facile per i Paesi Brics trovare un terreno d’intesa finanziario e monetario (più facile se solo economico) tra nazioni che hanno realtà, storia e strutture molto diverse.
Ma il futuro non sarà più dominato dal G7. Inevitabilmente le economie emergenti si conquisteranno il posto che, in fondo, si meritano nello scacchiere economico e finanziario mondiale. Quando e come avverrà questo passaggio e tutt’altra storia.