Economia

Google e Facebook, un problema da 2’700 miliardi di dollari

Attorno al valore dei dati digitali degli utenti si è formata una bolla, proprio come 15 anni fa attorno ai mutui subprime?

(Depositphotos)

Anna Tosi, a distanza di anni, viene ancora svegliata di notte. Le chiamate arrivano da luoghi lontani come il Pakistan o il Ghana. A volte sono uomini, le voci incrinate da un filo di disperazione: vogliono lavorare, vogliono un visto, vogliono andarsene dai loro Paesi. Telefonano perché Tosi, che gestisce un’agenzia di ragazze alla pari a Torino, prima della pandemia aveva deciso di reclutare personale tramite Facebook. Sulla piattaforma aveva indicato le caratteristiche richieste: donne, fra i venti e i trenta, provenienti da Paesi di lingua inglese.

L’imprenditrice pagava una tariffa per usare i dati su miliardi di utenti della piattaforma di social media e far arrivare così la sua offerta ai profili giusti. Qualcosa però non deve aver funzionato. «Sono iniziate ad arrivare risposte da Paesi remoti e dalle persone più improbabili», dice Tosi. Facebook aveva i dati, li monetizzava, ma li stava usando malissimo.

Il paradosso

Questo non è più un problema per l’imprenditrice, che ha smesso di comprare pubblicità mirata. È però un problema da 2’700 miliardi di dollari per i mercati finanziari internazionali e dunque per tutti noi. Quella somma è pari al valore di Borsa aggregato di Alphabet-Google e di Meta-Facebook, i due gruppi che catturano da soli più di metà dei budget globali delle inserzioni su internet. È a questa fonte di ricavi che i due giganti della rete devono i loro robusti margini lordi di profitto (alla fine del 2020, 56% dei costi di produzione per Google e 80% per Facebook), i quali a loro volta giustificano l’astronomico valore azionario delle aziende. Dalle inserzioni digitali derivano quattro quinti dei ricavi di Google e praticamente tutti quelli di Facebook, per un totale aggregato di 230 miliardi di dollari nel 2020.

Del resto gli inserzionisti sono disposti a trasferire al duopolio somme così vaste sulla base di un’unica considerazione: Google e Facebook hanno più dati di chiunque altro sulle preferenze degli utenti come consumatori, dunque investire in inserzioni attraverso questi due gruppi rende di più. Poco importa che effettivamente costi anche di più.

La pubblicità tentata da Anna Tosi dovrebbe — quando funziona — essere diretta agli utenti filtrandoli per età, sesso, residenza e situazione familiare basandosi anche su quello che viene dichiarato al momento della creazione del profilo. Non solo: i colossi attingono alla storia della navigazione in rete da parte dei singoli per individuare i profili più adatti a ciascun prodotto e indirizzare la pubblicità. Ma dai dati delle persone che mettono un “like” o fanno una ricerca in rete è possibile estrarre tutto questo valore?

Oppure accedere ad essi costa tanto solo perché attorno al valore dei dati digitali degli utenti si è formata una bolla, proprio come 15 anni fa attorno ai mutui subprime? Per rispondere, occorrerebbe sapere se la profilazione di miliardi di persone su Google o su Facebook garantisca davvero i vantaggi commerciali per i quali i due gruppi si fanno pagare. È come chiedersi quanto sia saldo l’architrave dell’intera economia digitale e quanto siano credibili le quotazioni azionarie di alcune delle aziende che valgono di più al mondo.

Non esistono risposte univoche. In un paper recente Alessandro Acquisti, un economista italiano della Carnegie Mellon University di Pittsburgh, ha stimato il vantaggio della pubblicità mirata sulla base dei dati in un incremento delle vendite fra il 4 e il 7%, rispetto alle inserzioni tradizionali. «Uno studio sostenuto da Google e uscito dopo il mio, per contrastarlo, sostiene che l’incremento è più vicino al 40%» dice Acquisti. «Ma se la pubblicità mirata sulla base dei dati costa cinque volte più di quella tradizionale, come a volte accade, anche un miglioramento del 40% sembra limitato rispetto ai costi». Per l’economista di Carnegie Mellon rischia di crearsi un gioco a somma zero: tutti comprano spazi su Google e Facebook per non perdere terreno rispetto ai concorrenti, ma le grandi piattaforme sono le sole a trarre vantaggio dall’ipotesi che la pubblicità distribuita attraverso di loro sia migliore.

Lorenzo Sassoli de Bianchi che è presidente dell’Upa, l’associazione italiana degli investitori in pubblicità, conferma che in media il costo per singolo contatto del «targeted advertising» è superiore. «Difficile precisare di quanto, perché le tariffe variano e non sono sempre comparabili. Ma le inserzioni basate sull’uso dei dati costano di più perché si presuppone che ci sia una maggiore focalizzazione su target più mirati», dice Sassoli. Il quale però nutre delle riserve: «Regna un’opacità totale da parte delle Big Tech – accusa –. I loro dati sulle visualizzazioni dei contenuti sono autoprodotti. Dunque l’efficacia della pubblicità programmatica (quella venduta in modo automatizzato, ndr) è solo presunta».

Monopoli

Il potere di mercato dei due oligopolisti californiani consente loro di imporre comunque i prezzi ai pubblicitari, nota Sassoli. Ma Google e Facebook restano esenti dagli obblighi di verifica da parte di Audiweb, Auditel o Audipress ai quali è soggetta tutta l’industria editoriale nazionale.

Tim Hwang, un ex “global public policy lead” di Google nel settore dell’intelligenza artificiale e del machine learning, è drastico: «L’evidenza empirica sull’efficacia della pubblicità programmatica è abbastanza confusa – dice Hwang –. Potrebbe non essere superiore a quella della pubblicità tradizionale e si potrebbe arrivare a una crisi di fiducia, perché le imprese finiranno per chiedersi perché devono spendere tutti quei soldi».

A Bruxelles si sta discutendo della possibilità di inserire nel pacchetto di regole Digital Services Act una stretta per le pubblicità mirate. Alfonso Mariniello, consigliere dell’associazione di categoria Iab Italia, frena: «Internet è un oceano così vasto che sarebbe impossibile raggiungere la propria audience senza profilare in alcun modo i destinatari dei messaggi. I budget non sarebbero sufficienti, soprattutto per le piccole e medie imprese. E gli utenti noterebbero, in negativo, la differenza».

A sostegno della tesi di Mariniello c’è uno studio commissionato da Google alla società di consulenza Copenhagen Economics: vietare o limitare severamente la pubblicità mirata potrebbe costare fino a 106 miliardi di euro all’anno, in Europa. Per molti, inoltre, la capacità di misurare gli effetti delle inserzioni è la risposta alla domanda sulla proporzionalità del prezzo: «L’imprenditore è in grado di calcolare e monitorare in modo sempre più accurato quanto gli torna indietro rispetto a ogni euro investito», dice Mariniello. Che sul valore dei dati aggiunge: «È un mercato libero con molta concorrenza, quindi il prezzo è corretto».

Questo però vale soprattutto per il cosiddetto “Open Internet”, quello che non coinvolge le Big Tech. Resta che anche in Italia Google e Facebook monopolizzano l’80% degli investimenti e con loro – riconosce Mariniello – l’inserzionista può solo accettare le condizioni richieste: «Non è in grado di calcolare quanto costa il dato e quanto costa lo spazio». È la domanda, senza risposta, da cui dipende buona parte del futuro di Wall Street.

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