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I vecchi tweet di ‘Emilia Pérez’

Le tragicomiche vicende di Karla Sofía Gascón, che si è giocata l’Oscar, sono ben più che cose da meme, ma anche il film ha i suoi difetti: manca d’ironia

Nella foto, Gascón. Candidato a 13 statuette, il film di Jacques Audiard è nelle sale
(Keystone)
6 febbraio 2025
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La protagonista di ‘Emilia Pérez’ Karla Sofía Gascón poteva essere la prima donna transessuale a vincere l’Oscar come migliore attrice protagonista, invece la sua campagna per il premio è finita prima ancora di cominciare, a causa di una lunga sequenza di inciampi diplomatici. Prima ha accusato la rivale Fernanda Torres, venerabile attrice brasiliana che è difficile immaginarsi a tramare per altro che per il teatro d’avanguardia o per qualche specie animale in via d’estinzione, di condurre una segreta campagna diffamatoria contro di lei. Poi si è scusata, ma non così in fretta da impedire a internet di riesumare una manciata di suoi vecchi tweet in cui se la prendeva con l’Islam e con la Hollywood woke, definiva George Floyd “un tossico spacciatore”, e come ciliegina sulla torta sembrava esprimere un certo sostegno alla figura di Hitler.

Quando i buoi erano già ampiamente scappati, Gascón ha provato a chiudere la porta della stella rivendicando i suoi trascorsi come attivista per i diritti Lgbt: “Come persona di una comunità emarginata, conosco fin troppo bene questa sofferenza e sono profondamente dispiaciuta per coloro a cui ho causato dolore. Per tutta la vita ho combattuto per un mondo migliore. Credo che la luce trionferà sempre sull’oscurità”.

Niente da fare per il tribunale dei social e soprattutto per Netflix, casa di produzione di Emilia Pérez, che ha annunciato di non aver più intenzione di sostenere l’attrice spagnola nella costosa e delicatissima campagna per trasformare la nomination in statuetta. Teoricamente è ancora candidata all’Oscar (qualcuno voleva addirittura squalificarla), ma in sostanza è come se dovesse competere a piedi nell’ultimo tratto di una gara che le sue avversarie corrono su scintillanti fuoriserie, o in jet privato.

Curiosamente nel leggere le tragicomiche disavventure di Gascón si prova una sensazione di sovraccarico ermeneutico non dissimile da quella che si avverte guardando ‘Emilia Pérez’, uno di quei film che si incaricano, non si sa quanto consapevolmente, di riportare sul grande schermo la vertigine cognitiva di quando il feed di Instagram associa sciocchezze e tragedie incommensurabili, o di quando ascoltiamo un discorso di Donald Trump.

Dimmelo cantando

‘Emilia Pérez’ è un musical su un sanguinario signore della droga messicano che desidera cambiare sesso, e per riuscirci si affida a una giovane e brillante avvocata (Zoe Saldana) desiderosa di emanciparsi dal sistema razzista e patriarcale che le tarpa le ali. Prima ancora che lo spettatore faccia in tempo a chiedersi se tutto ciò sia una buona idea, Zoe Saldana sta già cantando con un vibrato da principessa Disney che “cambiare corpo cambia il mondo”, è entrato in scena un filosofico ma pragmatico medico israeliano, e il crudele narcotrafficante è in preda a una nuova vena malinconica e piena di rimorsi. In maniera solo in parte giustificata dalla forma del musical, e un tantino incongrua per una storia di supercriminali e machiavellici avvocati, i personaggi appena si conoscono tendono a confidarsi reciprocamente i segreti più intimi, quasi sempre cantando, molto spesso piangendo.

Come ‘Everything Everywhere All At Once’, che infatti un paio d’anni fa ha vinto tutto quello che poteva vincere, ‘Emilia Pérez’ è un assalto sensoriale allo spettatore che rifiuta il criterio stesso del buon gusto perché rifiuta qualsiasi gerarchia fra temi e informazioni, è un frullatore pop che celebra l’unica urgenza che un certo tipo di pop sembra in grado di riconoscere e proporre, quella dell’espressione di sé.

Malumori messicani

Già prima delle balordaggini di Gascón, ‘Emilia Pérez’ aveva avuto un percorso controverso. Presentato a Cannes 2024, il film era stato inizialmente molto apprezzato, complice anche il grande prestigio di cui gode in patria e non solo il regista Jacques Audiard, che da ‘Il Profeta’ a ‘I fratelli Sisters’ ha sviluppato una sua poetica della trasformazione, spesso celebrando l’impegno e la determinazione di personaggi inizialmente emarginati. A Cannes il film ha vinto il Premio della Giuria e il premio per la miglior interpretazione femminile, assegnato collettivamente – in modo irrituale – a Karla Sofía Gascón, Selena Gomez, Adriana Paz e Zoe Saldana. Un lussuoso preludio alle 13 nomination agli Oscar che sarebbero arrivate pochi mesi dopo.

Giusto il tempo di superare la barriera del fuso orario, però, e la festa è stata interrotta dai malumori del pubblico messicano, indispettito dalla rappresentazione stereotipata e cupa che si fa del loro Paese ma anche dalla scelta della produzione di non coinvolgere nessun messicano nei ruoli artistici principali – fa eccezione solo Adriana Paz, che ha una parte significativa ma secondaria – e di ricreare gran parte delle location in Francia (su 54 giorni di riprese, soltanto 5 hanno avuto luogo in Messico).

Ecco fatti gli schieramenti di una polemica cinematografica che, finché è rimasta alla bassa intensità dei meme e dei tweet sarcastici, sembrava addirittura contribuire alla visibilità del film, e quindi alla sua corsa nella stagione dei premi: da una parte chi accusava ‘Emilia Pérez’ di superficialità, turismo del dolore e addirittura appropriazione culturale, dall’altra chi riconosceva al film di Audiard il coraggio di trattare temi ardui e delicati, come la disforia di genere e il problema dei cadaveri scomparsi delle vittime del narcotraffico in Messico (ebbene sì, il film parla/canta anche di questo) con un linguaggio insolito e antiretorico, addirittura con leggerezza.

Goffaggine adolescenziale

Va detto che però, purtroppo, il peccato davvero imperdonabile di ‘Emilia Pérez’ è proprio la totale mancanza di (auto)ironia. Come ha scritto Harron Walker su The Cut, “un film su una ricca donna trans che cerca di redimere il sé pre-transizione fondando un’organizzazione no-profit che sostiene di aiutare gli altri avrebbe avuto il potenziale per essere originale, tagliente e attuale”, ma in due ore e venti di film Audiard non dubita mai, nemmeno per un minuto, che il suo spunto sia invece tremendamente serio e toccante.

Di conseguenza ‘Emilia Pérez’ è un film di una goffaggine che ha qualcosa di adolescenziale nel voler tenere insieme stramberia ostentata e solennità, compiaciuti accenni di radicalità stilistica e un ansioso desiderio di piacere, ambizione tematica e la sostanziale banalità ecumenica di un messaggio di fondo sull’amore e l’accettazione di sé e degli altri.

La sua sfortunata campagna per gli Oscar rischia di rappresentare la parabola perfetta sull’avventatezza con cui molte produzioni contemporanee si gettano su temi “impegnati” come se fossero hashtag da accatastare in bio per solleticare l’algoritmo del successo. Per “cambiare la società”, aspirazione canticchiata che Emilia Pérez sembra condividere con i suoi personaggi, non bastano qualche canzone e una manciata di blande fantasticherie di emancipazione. Ma soprattutto, come minimo, bisogna prima ricordarsi di cancellare i vecchi tweet.