Le Giornate del cinema hanno preso il via con ‘Die Hinterlassenschaft des Bruno Stefanini’. Noi invece cominciamo da Srebrenica
Arrivando a Soletta, che di solito frequento per la letteratura quindi in primavera, mi colpiscono gli alberi dai rami ghiacciati, color cristallo anche se al suolo la neve non c’è, e io già mi sento in un mondo altro, dall’ordine sovvertito. Qui fa freddo, la cartellonistica sembra severamente incastrata nel suo bianco e nero, eppure questo festival ha una temperatura diversa e i colori sono caldi. Le Giornate di Soletta prendono il via con la cerimonia d’apertura alla Reithalle, un edificio sontuoso, maneggio con il tappeto rosso, celebrità d’arte e di Stato. E qui l’incanto continua: la consigliera federale Élisabeth Baume-Schneider caldeggia la multiculturalità svizzera citando portoghesi, kosovari, italiani, tedeschi e infine gli svizzeri; il Presidente della Società svizzera delle Giornate, Andreas Spillmann, ci parla dei film rifiutati, che qui trovano casa perché qui non c’è un bene o un male ma disarmonia e paradosso, dove vivono le idee forti e belle; il Direttore artistico Niccolò Castelli parla di esperienze epifaniche e immersive nella foresta giurassiana e di natura selvaggia; Monica Rosenberg, direttrice operazionale, mi cita le ‘Les Rêveries du promeneur solitaire’ di Jean Jacques Rousseau.
Sarà la retrospettiva di questa 60esima edizione dedicata al Jura, sarà che forse abbiamo tutti bisogno di evasione e messaggi incoraggianti di questi tempi, ma raramente si sentono discorsi ufficiali così apertamente inclusivi, rassicuranti, entusiasticamente spontanei: i fiori al posto dei numeri, gli studenti delle scuole d’arte al posto dei vip. Un bellissimo disordine che, ci ha insegnato Castelli citando un episodio d’infanzia (del resto di famiglia, casa ed eredità si parla a questo giro nei film), altro non è che un ‘ordine superiore’. Su il sipario.
‘Il ragazzo della Drina’ di Zijad Ibrahimovic, coprodotto dalla Rsi, verrà proiettato sabato ma noi ne diamo conto in apertura perché è uno dei due film ticinesi in concorso e perché simboleggia una delle linee guida della programmazione di queste Giornate: l’eredità, di quello che i nostri genitori (ma non solo, la generazione che ci ha preceduto) ci lascia. Nel caso di Irvin Mujcic, protagonista di questo bel documentario, l’eredità è un luogo deserto dove lui decide di riportare la vita, costruendo un futuro per sé e per gli altri. Ma eredità sono anche le tradizioni e i gesti antichi della terra. L’amore stesso della famiglia. Il trauma della guerra. Il giovane – emigrato dalla Bosnia in Italia negli anni 90 – cerca di riscattarsi e decide di tornare a casa. In costante dialogo con una famiglia che non c’è più – il padre morto, la madre e la sorella altrove (“non si può ricostruire una famiglia morta”, dirà a un certo punto Irvin), e con un luogo ricco di tradizioni che però vanno scovate scavando in una brulla terra, il protagonista inizia a costruire, altro. Lì dove l’umanità ha fallito, parliamo del genocidio di Srebrenica avvenuto esattamente 30 anni fa, Irvin torna con gesti antichi per dare vita a un progetto utopico: costruire un piccolo villaggio turistico. Invita e accoglie, in una terra desolata, perché questa non smetta di esistere.
La storia di Irvin era stata inizialmente individuata dal collettivo di giornalisti italiani The River Journal, che si occupa di storie legate ai fiumi, per commemorare l’anniversario dello scoppio della guerra in Bosnia, terra solcata dal fiume Drina, vicino alle cui rive vive il protagonista, un fiume di grande potenza naturale che attraversa la Bosnia per 350 chilometri dal Montenegro alla Croazia. Questa idea è poi stata proposta alla casa ticinese di produzione Rough Cat (Nicola Bernasconi), che ne ha affidato la regia a Zijad Ibrahimovich, diplomato Cisa nel 2007 (tra le sue opere, ‘Custodi di guerra’ del 2009 e ‘Periferia del nulla’ del 2016) e oggi oltre che regista anche fotografo, scultore e pittore. Ma soprattutto, Zijad proviene da qualche chilometro da dove si svolge la storia, e con Irvin condivide la Storia. «Sono nato e cresciuto sul fiume Drina, per me fare questo film era una questione morale. Certo, ho fatto altri film legati alla guerra, è parte della mia vita e mi ha condizionato. Di Irvin conoscevo già la sorella, una scrittrice che oggi vive a Roma». L’epigrafe in apertura del film, quella che dice “La casa è sempre da qualche parte dove io non sono” è sua. Una riflessione, quella sul concetto di casa, che riempie tutto il documentario con nostalgia, forza e dolcezza. Le immagini parlano molto, ma è la voce narrante di Irvin che ci accompagna per mano in questo incredibile viaggio.
«Quando l’ho incontrato per la prima volta mi sono accorto di questa sua caratteristica narrativa e l’ho considerata come linguaggio proprio del film. Abbiamo lavorato molto in questo senso sui suoi discorsi, erano incredibili! Il film quindi sfrutta parecchio questa ambiguità, appare come una voce narrante indefinita, non c’è distinzione tra camera e off». Un fiume di parole che accompagnano, raccontano l’orrore, come la Drina, ma poi si placano e sono bellissime. Chiedo a Zijad Ibrahimovic perché, volendo il film raccontare un recupero anche di tradizioni, la lingua utilizzata sia l’italiano: «Perché rappresenta un luogo in cui Irvin si è sentito al sicuro. È parte ormai della sua identità. La sua nuova lingua rafforza anche questo distacco, le radici sono state estirpate, ora vanno ricercate con mezzi acquisiti, non quelli naturali». Gli chiedo allora di parlarmi questo fiume, che nel film viene paragonato a una Madre: «Gli abitanti della valle della Drina sentono molto il legame con il fiume. È stata una tomba, non solo in questa guerra, è una fossa comune da secoli. Conserva memorie e sofferenze e gli si attribuisce un valore emotivo, sacro. Lui lo esprime così, lo lega alla madre, e alla fine gli si crede, perché sicuramente un po’ lo è, madre. È il posto dove tutti noi abbiamo imparato a nuotare, dove oggi si pesca. È anche vita. Ed è il confine fisico con la Serbia. Un muro, una barriera, dove qualcosa finisce e al contempo inizia».
Attorno alla Drina, boschi e campi brulli, una natura selvatica, rude e dura, solitaria e malinconica: è autunno e anche se i colori sono accesi, le giornate sono grigie. «Volevo filmare in questa stagione per una questione drammaturgica. Srebrenica e i dintorni d’estate sono vivi, la natura è bella. Ma quando finisce si sente la tristezza di questo posto più che in altre stagioni. È più facile coglierla». Alberi trainati fuori dal bosco dai cavalli, come un tempo, cani e gatti che guardano stupiti l’uomo solitario tornato per stare. Perché tanta attenzione agli animali nel film? «Perché c’erano! Rimpiazzavano le persone, è come se facessero il numero degli esseri viventi che non ci sono più. Completano il vuoto. Ricostruire vuol dire partire da zero. La guerra si è fermata ma qui si riparte da molto prima, quasi da un tempo arcaico. Gli animali, tutto l’agire in maniera rudimentale sottolinea la fatica del ripartire, costruire, ripopolare, come un insediamento di persone che arrivano lì, per caso. L’animale mi riporta a queste sensazioni primordiali».
Chiedo, infine, cosa è significato fare questo film? Tornare? «Per me si tratta di un dovere morale. Perché non ricapitino tragedie come quella di Srebrenica bisogna parlarne, avvertire la gente, ricordare continuamente queste ingiustizie. Ho cercato di farlo il più possibile con un linguaggio universale anche dal punto di vista emotivo. Perché anche chi non è della Valle della Drina possa intuire cosa si può provare. La parola genocidio è talmente grave che va ribadita. È presente e dobbiamo scriverla a lettere maiuscole dappertutto come segnale d’avvertimento».