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‘Vorrei una voce’, più un sussurro che un grido di forza

Apprezzabili la volontà e l'intenzione del poliedrico attore, autore e regista, per un risultato a tratti nebuloso

Una voce sola
14 gennaio 2024
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Lo testimoniano i numerosi premi ottenuti in carriera: Tindaro Granata è un poliedrico autore, regista e attore teatrale di rilievo, caratterizzato da uno stile peculiare e una capacità di interpretazione di una certa entità. Lo si evince anche dal suo ultimo spettacolo, ‘Vorrei una voce’, giovedì e venerdì scorsi in un Teatro Foce tutto esaurito per l’occasione. Il progetto consiste sostanzialmente in un monologo scandito da brani tratti dall’ultimo concerto del 1978 di Mina, performati con la singolare scelta di espressione attraverso il playback. La performance teatrale trae la sua origine da un precedente e consolidato percorso intrapreso con le detenute della Casa Circondariale di Messina, all'interno del progetto ‘Il Teatro per sognare’ e avrebbe come fine ultimo emotivo, per gli spettatori, proprio la riappropriazione di quella parte di sé che non ha più, o non ha mai avuto, la capacità di sognare, un messaggio motivazionale di speranza per il futuro.

Se dunque sulla carta lo spettacolo sembra funzionare anche solo per l’idea di partenza, in questa rivisitazione in cui Granata interpreta tutti i ruoli femminili delle detenute, ovviamente impossibilitate a presenziare personalmente, lo stesso non si può sfortunatamente dire dell’effettiva riuscita di trasmissione della forza della messa in scena: come lo stesso attore ammette a cuore aperto, descrivendo il progetto ma anche introducendolo sul palco, il processo creativo è stato altalenante, figlio di un momento personale di smarrimento e i cui testi hanno risentito da un punto di vista temporale, scritti a poca distanza dal debutto, forse procrastinando un po’, perché l’idea, almeno quella nella testa dell’autore, risultava chiara. È purtroppo questo uno degli elementi che contribuiscono a minare il coinvolgimento emotivo dello spettatore, sballonzolato tra il patto artistico teatrale stretto all’inizio dell’esibizione e la rottura dello stesso: il playback delle canzoni si alterna alle diverse interpretazioni imitanti le donne carcerate, con il loro parlato, i loro gesti e la loro personalità, uscendo poi a più riprese completamente, sia dalle situazioni e sia dai personaggi, per lasciare il posto a Tindaro Granata che si racconta, anche nel profondo, con la propria intimità e il proprio passato, dalle esperienze sessuali in giovane età fino al rapporto travagliato con la famiglia.

Le intenzioni c’erano e sicuramente la volontà è apprezzabile, il risultato però risulta piuttosto nebuloso e non è sempre facile star dietro ai cambiamenti dei personaggi, raramente annunciati e che impongono un grado altissimo di attenzione da parte dello spettatore, oltre che una pregressa conoscenza della lingua e delle specificità della gente del sud Italia. Non basta quindi Assunta, personaggio dirompente e che, con il suo accento del sud, certo provoca una certa ilarità e risate, a tenere in piedi il tutto, perché si sente la necessità di vederla coi propri occhi, oppure riconoscerla attraverso un uso maggiore dei costumi e delle luci.

Per quanto sia evidente il lavoro in tal senso, ci sono almeno due problematiche non indifferenti e che forse ostacolano la riuscita della performance: l’eccessiva somiglianza tra un costume e l’altro, che dovrebbero invece aiutare a separare i personaggi, e un utilizzo dell’illuminazione preciso ma non funzionale, a causa di un quasi permanente stato di controluce che oscura il volto dell’interprete, spesso segnandolo con ombre particolarmente dure e distraenti. Un’occasione dunque non esattamente colta fino in fondo, confusa nella sua messa in scena, indubbiamente curata ma poco pratica, debole nella sua intenzione, ma che comunque mantiene alcuni aspetti interessanti, sorretti dal magnetico modo di fare di Granata, la cui messa in gioco è comunque oltremodo notevole.

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