La recensione

‘Rapito’: la morte della Chiesa, l’unificazione di una nazione

Tragedia maestosa quanto ineluttabile quella di Bellocchio, un grido anticlericale che riscrive la storia attraverso il Caso Mortara (nelle sale)

Bologna, 1851
3 novembre 2023
|

In un mondo in cui la maggior parte delle persone appartiene ancora a una corrente religiosa, ‘Rapito’, ultima opera del regista italiano Marco Bellocchio, si scaglia duramente contro l’archetipo della religione, quindi il Cristianesimo, demolendone le fondamenta e, in un certo senso, andando contro ogni forma di teologia e superstizione. Una tragedia con tratti del thriller e del poliziesco, supportata da una colonna sonora da brividi, al servizio della tensione che permea tutto il film, oltre che dall’ormai caratteristico taglio fotografico del regista, subito riconoscibile in quel gioco di sagome, ombre dure e colori caldi che fendono i personaggi come una lama.

È il 1851 e, a Bologna, il piccolo Edgardo Mortara, sei anni, vive con la madre Marianna, il padre Salomone detto ‘Momolo’ e cinque fratelli. Credenti e praticanti la fede ebraica, vengono sconvolti dall’arrivo dei gendarmi, rappresentanti Papa Pio IX e quindi lo Stato Pontificio, per ordine dell’inquisitore Pier Feletti. Il bambino sarebbe stato battezzato a loro insaputa e deve quindi essere prelevato dalla famiglia, per essere cresciuto come cristiano. Minimizzante questa separazione, Padre Feletti fa subito trasferire Edgardo a Roma, dove comincerà una vita di studi teologici assieme ad altri bambini. Qui il piccolo fa amicizia con Elia, che gli consiglia di fare il bravo per tornare a casa prima, ma viene progressivamente influenzato e indottrinato dalla fede cristiana, arrivando al ripudio dell’Ebraismo e, in un certo senso, della sua stessa famiglia. Gli anni passano e con essi aumenta il dolore dei genitori di Edgardo, che fanno di tutto per riunirsi al proprio figlio, fino agli eventi di Porta Pia e al conseguente rovesciamento dello Stato Pontificio, in favore dell’unificazione d’Italia.

Nessuno è veramente cattivo

‘Rapito’ è una critica sprezzante e feroce nei confronti del Cristianesimo, ma che non si ferma lì: Bellocchio riesce con maestria a parlare di umanità e, anche se è evidente la colpa attribuita soprattutto a Padre Feletti e Papa Pio IX, racconta anche una questione più primordiale e che si traduce con il fare qualcosa perché deve essere fatto, per ordine superiore o credenza. La famiglia ebrea deve sottomettersi alla Polizia pontificia, che a sua volta deve sottomettersi al credo e alla volontà del Papa; quindi Anna Morisi, battezzatrice del piccolo all’insaputa di tutti e mossa dalla volontà di salvarlo dalla dannazione eterna del limbo, è schiava dell’ignoranza popolare e della paura dell’aldilà. Nessuno è veramente cattivo e sono le circostanze e le premesse a formare queste due principali fazioni, quella cristiana contro quella pagana, in questo caso ebraica: l’unico personaggio che forse ha capito veramente la soluzione riguardo all’effimerità della questione è Riccardo, fratello di Edgardo, che si allontana progressivamente dalla fede per abbracciare un’idea di Stato laico, abbandonando il concetto stesso di culto religioso. Edgardo, invece, è totalmente in balia degli eventi e cambia bandiera in base alla situazione, come un cucciolo che lotta per essere ammaestrato, abituato a seguire ciò che gli altri dicono e non pensare con la propria testa.

È un film che riporta lo spettatore anche al concetto cardine di educazione: è lampante la mancanza di capacità in tal senso da parte dei prelati, che si limitano a dire “stai calmo” e “non è successo niente” come risposta a ogni cosa, discorso che però non va in favore della famiglia ebraica, accecata anch’essa dalla propria fede e che quindi giudica Edgardo nella sua mancata ribellione al condizionamento, senza riconoscere l’obbligo del comportamento sottomesso del piccolo, che non sembra voler fare altro che sopravvivere, individuando la fazione più forte in gioco per poi potervi aderire.

Nonostante all’inizio fatichi a ingranare, la capacità di direzione degli attori di Bellocchio è estrema: Barbara Ronchi, con la sua espressività, riesce a sferzarci con tutto il suo dolore di madre separata dal proprio figlio, quindi anche Fausto Russo Alesi, anche se a tratti un po’ teatrale, riesce a entrare nel cuore dello spettatore grazie alla sua disperazione e al suo coraggio di opporsi a un potere molto più grande e forte di lui.


Keystone
A Cannes nel maggio scorso

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔