Dalla Croisette

Addio Indiana Jones, l'ultima fatica di Harrison Ford

Il capitolo della saga firmato da Mangold sembra ‘un arlecchino’ di trailer, ma ‘valeva la pena vederlo’. Degno di interesse il film di Molly Manning.

Da sinistra: Mads Mikkelsen, Harrison Ford, James Mangold, e Phoebe Waller-Bridge alla première di ‘Indiana Jones and the Dial of Destiny’
(Keystone)

Ci sono film che si vanno a vedere perché non hai altro da fare, film che segui perché ami un regista e poi film che insegui perché sei un fanatico di un personaggio che ti è entrato nella mente e ti ha seguito nel tempo. E quest'ultimo è il caso di ‘Indiana Jones and the Dial of Destiny’ (‘Indiana Jones e il quadrante del destino’) presentato a Cannes 76 con gran sfoggio di dive e divi sul tappeto rosso di quel tempio inviolato che è il Palais sulla Croisette, intitolato nientemeno che ai Lumière.

Un malinconico accompagnare

Già, probabilmente i due fratelli di Lione avrebbero storto il naso di fronte a questo ‘Indiana’ firmato da James Mangold, buon artigiano non degno di Spielberg, ma capace anche di un linguaggio originale che stavolta però ha messo da parte per firmare un “arlecchino” fatto di tanti trailer messi in fila, piuttosto che un vero film. E il pubblico va in visibilio e applaude fino a spellarsi le mani e noi non possiamo non condividere, perché di nascosto ai Lumière preferiamo quel folle di Méliès e Indiana Jones non è forse figlio di quei viaggiatori che in abito civile vanno sulla Luna o si avventurano al polo o nelle profondità del mare? È il cinema questo e le storie, come spiegava il grande John Ford, sono sempre quelle.

E così non ci si può lamentare se anche in questo film Indiana Jones si ritrova a combattere contro i nazisti, questa volta poi premiati dagli Stati Uniti bisognosi di esperti di razzi per progetti spaziali. ‘Indiana Jones e il quadrante del destino’ ha il malinconico pregio di accompagnare la vecchiaia di Harrison Ford, fin commovente nelle scene d’azione: certo gli anni pesano per tutti, ma vedere il mito appesantito è una sofferenza che l’amante dell’attore e del personaggio non meritava. E la Palma d’oro onoraria – che il Festival gli ha donato a sorpresa – segna ancor di più il peso degli anni dell’uomo, come un arrivo. (Allora viene da ripensare all’ultimo 007, dove Brosnan si fa esplodere per amore: morte d’eroe, non morte di stanchezza). Lo stesso il film corre, forse troppo, e la storia è troppo fragile, e il tempo che dura è tanto. Valeva la pena vederlo comunque.

Riti di passaggio

Nel giorno di Indiana Jones si è visto anche ‘How To Have Sex’ di Molly Manning, film che racconta di tre adolescenti britannici che vanno in vacanza come rito di passaggio: bevendo, andando in discoteca e rimorchiando. E a guardarli e a condividere il loro destino ci sono delle coetanee, forse meno imbranate di loro, ma sicuramente più sensibili.

Un film dove il fare sesso non è un’allegoria, ma il bisogno di un’età sempre più imbarazzante da vivere, anche a causa dell’aumento della pressione ad avere esperienze sessuali che tutti i media e le piattaforme Tiktok di turno esercitano su ragazze e ragazzi. Il sesso, che non è più tabù, si infila nelle giovani vite alla pari di una sbronza, da dimenticare la mattina dopo. L’argomento scelto dall’esordiente Molly Manning in questo interessante film è di quelli che bruciano più di un Indiana Jones. Il confronto si fa poi stimolante guardando alle diverse idee di cinema, due idee di spettacolo e divertimento lontane: e se noi preferiamo questo film di giovani è perché preferiamo il caviale alle patatine fritte, che pur non disdegniamo.

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