la recensione

900presente, la musica di un figlio del Ventesimo secolo

L'Ensemble900, diretto con arguzia da Tamayo, si è esibito domenica sera in alcune pagine di György Ligeti, di cui si celebra il centenario della nascita

Una foto che ritrae il compositore György Ligeti nel 1992
28 marzo 2023
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Si susseguono gli omaggi a György Ligeti (1923-2006) nel centenario della nascita. Ho seguito quello di domenica scorsa all’Auditorio della Rsi, per il quale Arturo Tamayo ha scelto un programma raffinato e ha schierato un Ensemble900 di oltre quaranta strumentisti, con tre soliste, che hanno compiuto parte dei loro studi al Conservatorio della Svizzera italiana: la pianista Sara Capone, la flautista Marta Jornet Espí e l’oboista Alessia Vermi. Per i dovuti avvicendamenti sul palco è stato un concerto rigorosamente diviso in tre parti. All’inizio il Kammerkonzert (1969/70) per 13 strumentisti; poi quattro estratti dalla Musica ricercata (1951/53) per pianoforte alternati con i borborigmi di Fragment (1961) per 10 strumentisti; alla fine il Doppelkonzert (1972) per flauto, oboe e orchestra.

La vita di Ligeti è stata particolarmente drammatica. Nato in Transilvania in una famiglia ebrea, sterminata quasi tutta dai nazisti, finita la guerra è passato sotto un regime comunista. Leggo nella storia della musica del Ventesimo secolo di Alex Ross che in segreto Ligeti si dilettava di dodecafonia, sebbene la sua conoscenza del metodo si limitasse a ciò che era riuscito a ricavare dalle pagine del “Doctor Faustus” di Thomas Mann.

Nel 1956 il governo ungherese tenta una riforma democratica, che viene subito repressa dall’esercito sovietico, il primo ministro Imre Nagy è imprigionato, poi assassinato. Ligeti non sopporta questa nuova perdita di libertà e fugge in Occidente, dove può sviluppare quello che oggi riconosciamo come suo linguaggio musicale, che non è necessariamente quello dell’avanguardia. A settant’anni dirà in una conferenza: “Dobbiamo trovare un modo di non tornare indietro anche senza proseguire sul cammino dell’avanguardia. Io mi sento in una prigione, tra due muri: uno è l’avanguardia, l’altro il passato, e voglio fuggire”.

Sono forse reminiscenze tonali, messaggi indecifrabili tra il serio e il faceto, comunque una musica, come voleva Ligeti, “che scintilli come ghiaccioli e avanzi con la rigidità di una marionetta”, che domenica è stata evidenziata dall’arguta direzione di Arturo Tamayo e dalla bravura di tutti gli strumentisti. Serberò con cura il programma di sala, che porta tutti i loro nomi.

Vorrei ancora sottolineare la funzionalità dell’Auditorio di Besso per questa musica. L’ampiezza del palco che consente una disposizione ottimale della complessa percussione e dei molti strumenti a tastiera. I poco più di 400 posti, sufficienti per una musica destinata a un pubblico scelto, non alle masse. Purtroppo domenica ne erano occupati meno della metà, ma siamo in Ticino, non in una metropoli con milioni di abitanti.

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