La recensione

Da Grisham a D’Urso, ‘Innocente’ scuote la platea

Senza sconti e con qualche pennellata di tragica ironia: la terribile storia di Ron Williamson nel bel lavoro di Mirko D’Urso, visto allo Studio Foce

19 gennaio 2023
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È difficile trovare un destino più cinico e beffardo di quello toccato a Ronald ‘Ron’ Williamson: idolo delle folle per le sue prodezze negli stadi di baseball Usa, dapprima si vide la carriera spezzata da un gomito andato in frantumi; poi anche la sua stessa esistenza andò in frantumi, quando fu sospettato, incarcerato e condannato a morte per l’omicidio di Debbie Carter, cameriera in un club di Ada (Oklahoma). "Sono innocente!", urlò subito Ron, ma nessuno gli credette. La sua fama di mandrillo assatanato, la sua propensione per alcol&droghe e la sua condotta disordinata convinsero i frettolosi investigatori incaricati delle indagini che fosse proprio lui il colpevole. A nulla valsero le dichiarazioni della mamma ("Quella sera Ron rimase a casa e se ne andò a dormire presto"), mentre quelle del vero assassino ("Ho visto Ron con Debbie poche ore prima dell’omicidio") furono considerate Vangelo. Si giunse a soli cinque giorni dalla data dell’esecuzione quando finalmente il DNA dimostrò che non poteva essere Ron lo stupratore/killer. Nel frattempo, tuttavia, aveva trascorso ben undici anni da ‘Dead Man Walking’ nel braccio della morte.

La vicenda è stata riassunta dal mago del legal thriller John Grisham nel suo j’accuse ‘Innocente, una storia vera’, uscito nel 2006 sia negli Usa sia nella traduzione italiana. Una volta letto il libro, Mirko D’Urso ha pensato che una storia simile meritava di essere trasposta su un palcoscenico teatrale.

Nelle serate scorse si è dunque presentato al pubblico dello Studio Foce quale interprete, regista e dramaturg di una pièce che, diciamolo subito, ha scosso la platea. Rinchiuso in una gabbia di tre metri per due, con il poco elegante completo arancione tipico delle carceri Usa, ha messo subito le cose in chiaro: "Mi chiamo Ron, ho una passione sfrenata per donne, alcol e droghe, ma non ho mai ucciso nessuno". In un monologo intenso, teso e a volte estremamente toccante, D’Urso riepiloga i momenti salienti della vita di Ron: l’infanzia serena nonostante la severità del babbo, il profondo legame con la madre e le due sue sorelle maggiori ("Mi sono state sempre vicine, nonostante tutto), i successi sportivi ("Stavo per emulare il mio idolo Mickey Mantle" – per chi conosce il baseball: 536 fuori campo in carriera! ndr), l’irriducibile voglia di sesso sfrenato e privo di qualsiasi vincolo sentimental/romantico, la depressione seguita all’infortunio che mise fine alla sua avventura sportiva. Rinchiuso come una belva in gabbia, dà in frequenti scalmane cui i solerti secondini mettono fine a suon di psicofarmaci. Il Ron di D’Urso ha comunque qualche pennellata di tragica ironia: un occhio di bue inquadra a più riprese, nel buio della sala, il suo volto fuori le sbarre, mentre l’attore sembra trasfigurarsi nel Marty Feldman di ‘Frankenstein Junior’.

C’è però poco da ridere nel beffardo/simil happy ending della vicenda: riconosciuto innocente e risarcito con qualche milione di dollari, Ron riprese la sua vita spericolata e morì a soli 51 anni. D’Urso congeda il suo pubblico con un ammonimento ("Tornatevene a casa e sentitevi tutti colpevoli!") che sembra destinato alla giustizia Usa, colpevole di tragica e purtroppo ricorrente leggerezza nel mettere a morte chi non si è macchiato di colpa alcuna.

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