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Neary Adeline Hay e il tempo della memoria

La regista franco-cambogiana, Premio diritti umani per l’autore ’22, presenta ‘Eskape’ e ‘Angkar’. Il suo lavoro è un coraggioso atto di trasmissione

La proiezione dei due film di Neary Adeline Hay sono in programma venerdì 21 e sabato 22 ottobre
(©Ffdul)
18 ottobre 2022
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«A 16 anni, ho comperato la mia prima videocamera con cui filmavo i miei genitori, mio fratello; la quotidianità. Era un mezzo intimo e personale per fissare ricordi tangibili della mia famiglia. Sentivo che avevo bisogno di custodire tracce e da allora non ho più smesso. Poi, a vent’anni sono stata per la prima volta in Cambogia, per lavorare a un progetto di arte terapia con bambini di un orfanotrofio e ho pensato potesse essere interessante farne un film (‘Ils dessinent le Cambodge’, 2003; ndr)». Da quell’esperienza – seppur la sua formazione non sia nel cinema e sebbene non abbia mai pensato di diventare regista – Neary Adeline Hay sente la necessità di documentare il suo Paese d’origine e «la sua memoria di fronte al vuoto».

Un racconto intimo e collettivo

Aspettando l’inizio della nona edizione del Film festival diritti umani Lugano (19-23 ottobre), abbiamo raccolto l’intervista con la regista e produttrice franco-cambogiana insignita del Premio diritti umani per l’autore 2022. La regista "ha consacrato fino a oggi gran parte del suo lavoro al genocidio cambogiano, alla ricostruzione difficile della sua identità personale e di quella di un intero popolo profondamente segnato da quei tragici eventi, in particolare, con i suoi film ‘Angkar’ ed ‘Eskape’, esprime la fragilità di una vicenda familiare intima, affidandoci il doveroso testimone di una memoria storica da tenere in vita", sono le parole del direttore artistico del festival, Antonio Prata, che motivano la scelta del premio.

I due film verranno proiettati nel corso dell’edizione: il primo appuntamento è con il suo secondo lungometraggio ‘Eskape’ (2021, in prima svizzera), che sarà introdotto dalla cerimonia di premiazione venerdì 21 ottobre al Cinema Corso di Lugano (alle 20.30); la regista sarà presente per ricevere il premio e alla fine della proiezione parteciperà a un momento pubblico. Il suo primo lungometraggio, ‘Angkar’ (2018), è invece in calendario per sabato 22 al Cinema Iride (sempre a Lugano), alle 15.30. Dopodiché, si svolgerà l’approfondimento ‘La Cambogia, tra memoria e riappacificazione’, un’occasione per andare a fondo dei temi trattati con la regista.

Entrambe le sue opere – selezionate in numerosi festival internazionali, ricevendo anche importanti riconoscimenti – si focalizzano sulla trasmissione della memoria, partendo dalla storia intima e familiare. Con le voci del papà e della mamma (nonostante la forte reticenza di quest’ultima), a distanza di quarant’anni Neary Adeline Hay inizia a ricostruire la sua identità, ma contribuisce anche alla scrittura di una delle pagine più buie della storia della Cambogia: il regime degli Khmer Rossi (dal 1975 al 1979) con a capo il dittatore comunista Pol Pot, il genocidio di milioni di cambogiani e la diaspora di altri. Una narrazione intensa e delicata, che ha nella ripresa ravvicinata e nelle interviste a tu per tu, intervallate da belle sequenze a volo d’uccello, la forza del racconto, che apre a una realtà distante dalla nostra, ma che per ragioni storiche riguarda anche l’Europa, la Francia in particolare che è stata fra le nazioni d’accoglienza dei profughi cambogiani. Questo perché quello che oggi è un regno, dal 1863 al 1954 è stato un protettorato francese.

Prima di lasciarle la parola, diamo alcune notizie biografiche. Neary Adeline Hay è nata nel 1981 in Cambogia, in un campo di concentramento, da un matrimonio forzato. A soli tre mesi di vita, con la famiglia lascia il suo Paese d’origine e fugge. Crescerà in Francia (vi arriva nel 1984) nella periferia parigina, dove anni dopo si formerà in arti plastiche e arti applicate. Prima di ‘Angkar’ ed ‘Eskape’, ha realizzato cortometraggi, mentre attualmente sta lavorando al film ‘Kampuchea’ e sta preparando la sua prima opera di finzione ‘Ducks’.

Alla fine di ‘Angkar’ suo papà dice: ‘Spesso mi sono chiesto perché sono sopravvissuto. Ora lo so, perché così ho potuto raccontarti questa storia. Perché questa storia è la tua memoria’. Signora Hay, questa frase mi pare piuttosto significativa: quando e per quali ragioni ha sentito l’urgenza di raccontare queste vicende?

I miei genitori sono stati forzati al matrimonio in un campo di concentramento: gli Khmer Rossi avevano progettato di costituire un esercito di giovani soldati, di cui avrei dovuto far parte. Insomma, in quella storia c’è la genesi della mia esistenza. Le domande sono arrivate molto presto, sin da bambina: sentivo che c’era qualcosa che i miei genitori non mi raccontavano, nonostante ponessi loro delle domande. Per me è stata quindi una necessità: volevo capire le ragioni della mia esistenza.

Ha dovuto però vincere una forte reticenza, soprattutto di sua madre…

È un passato che ricordano con dolore. È difficile aprire una scatola e riportare alla mente ricordi dolorosi, senza avere la certezza che il depositario di questa memoria sia realmente pronto a riceverla. Il silenzio quindi era la risposta; la risposta di un popolo intero; un silenzio collettivo.

Una storia privata, intima, che ne racconta infatti una collettiva. Una delle pagine più scure della storia cambogiana che per molti anni è rimasta taciuta. Al giorno d’oggi questo passato come è vissuto?

La generazione dei miei genitori, che ha vissuto i drammi del regime, è contraddistinta dal silenzio; dovuto anche al peso della vergogna, perché è stato un genocidio fra cambogiani Quella generazione voleva voltare pagina e andare avanti. La mia generazione è cresciuta con quel silenzio, ponendosi molte domande. I ventenni cambogiani di oggi cominciano a interessarsi alla questione: perché è trascorso del tempo, perché le condizioni di vita oggi sono più facili rispetto al passato e rispetto alle generazioni precedenti non devono combattere per la sopravvivenza. Durante alcune mie proiezioni in Cambogia sono rimasta sorpresa dalla grande partecipazione di pubblico giovane e, in generale, dalle tavole rotonde, dalle quali è emersa la necessità di una testimonianza collettiva. Oggi, si sente che c’è voglia di raccontare ed esprimersi sui fatti, tornando a riflettere su un passato tragico.

A livello internazionale, lei è una delle rappresentanti della cinematografia cambogiana, tuttavia vive in Francia. Questo cosa ci racconta del contesto di produzione di cinema nel suo Paese d’origine?

Il cinema in Cambogia è molto recente. Dopo il regime degli Khmer Rossi e il Protettorato vietnamita, arrivano – in un Paese totalmente in rovina – le prime elezioni, a inizio anni Novanta. Il rinascimento del cinema cambogiano è di quegli anni (fra i registi rappresentativi ricordiamo Rithy Panh). Oggi, siamo ancora in pochi a rappresentarlo, ma è un movimento che si sta ampliando: è una questione di tempo per permettere a un popolo intero di riappropriarsi della sua storia. Ma la ‘nouvelle vague’ del cinema cambogiano sta arrivando.

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