Venezia 79

Cinema e televisione non sono la stessa cosa

Oggi al Lido: ‘Il signore delle formiche’, ‘Eternal Daughter’, ‘L’immensità’, ‘Dead for a Dollar’ e ‘Musica for Black Pigeons’

Penelope Cruz ed Emanuele Crialese attrice e regista di ‘Immensità’: un film fra Patty Pravo e Adriano Celentano
(Keystone)
6 settembre 2022
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Succede alla Mostra del Cinema in corso al Lido di Venezia oggi colmo di veneziani in ferie che nello loro assolate spiagge neppure sanno che si svolge questo Festival nato per coinvolgere l’antica città dei Dogi.

Succede che passino film italiani, magari anche attesi come ‘Il signore delle formiche’ del settantasettenne Gianni Amelio, qui dal 1977 senza mai vincere un vero premio importante, come invece è successo a Cannes nel 1992 con ‘Il ladro di bambini’ che gli valse il Gran premio della Giuria. Qui il regista calabrese affronta un personaggio come il drammaturgo poeta e omosessuale Aldo Braibanti. Di lui Pier Paolo Pasolini scriverà: "Se c’è un uomo ‘mite’ nel senso più puro del termine, questo è Braibanti: egli non si è appoggiato infatti mai a niente e a nessuno; non ha chiesto o preteso mai nulla. Qual è dunque il delitto che egli ha commesso per essere condannato attraverso l’accusa, pretestuale, di plagio? Il suo delitto è stata la sua debolezza. Ma questa debolezza egli se l’è scelta e voluta, rifiutando qualsiasi forma di autorità: autorità, che, come autore, in qualche modo, gli sarebbe provenuta naturalmente, solo che egli avesse accettato anche in misura minima una qualsiasi idea comune di intellettuale: o quella comunista o quella borghese o quella cattolica, o quella, semplicemente, letteraria... Invece egli si è rifiutato d’identificarsi con qualsiasi di queste figure – infine buffonesche – di intellettuale". Il problema è che a Gianni Amelio non interessa il destino di questo intellettuale, lo usa come giustificazione per provare a raccontare un’epoca. Ma il fatto è che gli riesce male, attratto com’è proprio dal suo televisivo raccontare di un’epoca, vero crepuscolo di un’altra che non sa cogliere.

In Concorso non convince neppure ‘The Eternal Daughter’, thriller spocchioso firmato dalla sessantaduenne regista londinese Joanna Hogg, con interpreti Tilda Swinton, Joseph Mydell e Carly-Sophia Davies. È un film su una regista che vuole girare un film su sua madre, lo stesso che vediamo sullo schermo. Peccato che – tra ululi di fantasmi, nebbie e luoghi da incubo – la regista non riesca mai a dare una emozione. Comunque sempre meglio di un altro film in concorso: ‘L’immensità" di Emanuele Crialese con una penosa Penélope Cruz. Un film incapace di farti entrare in una storia (già vista) di identità sessuale: una ragazza che si sente ragazzo nella Roma degli anni Settanta dello scorso secolo, un film sospeso tra Patty Pravo e Adriano Celentano, con i negativi influssi di una morente religione cattolica. Crialese racconta una barzelletta, e anche male.

Su altri livelli fuori concorso abbiamo visto ‘Dead for a Dollar’ di Walter Hill, uno che il cinema lo mastica bene. E anche qui – pur con qualche pausa – mostra come ancora funziona il cinema hollywoodiano, anche quando affronta il vetusto genere western andato in disuso dopo le lotte dei nativi americani per preservare la loro originalità umana. Spariti gli indiani e le loro frecce, seppelliti Geronimo e Buffalo Bill, ecco Hill che ci porta in un paesino nelle profondità messicane, dove la vita di un uomo vale meno di un dollaro, e ci fa incontrare un soldato nero in fuga con una donna bianca (una brava Rachel Brosnahan). Al loro inseguimento una strana coppia formata dal veterano cacciatore di taglie Max Borlund (un Christoph Waltz in gran spolvero e dimentico di Tarantino) e da Alonzo Poe (un intenso Warren Burke). Max è un cacciatore di taglie che cerca di evitare il confronto con l’insulso giocatore d’azzardo professionista e fuorilegge Joe Cribbens (un Willem Dafoe in bella forma). Il film si regge su una buona trama ben risaltata da un linguaggio cinematografico di gran valore. Lo spettacolo è da applausi.

Come ancora da applausi è stato il documentario ‘Music for Black Pigeons’ di Jørgen Leth, Andreas Koefoed. Il titolo è riferito a un piccione che restò ad ascoltare un concerto di Lee Konitz prima di volarsene via. I registi hanno confezionato un’opera straordinaria capace di dire della musica e di chi, anche faticando, la esegue. Ben raccontato e con un giusto peso musicale, il film regala profonde emozioni e gli applausi – dalle solite sale semivuote – si alza sincero.

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