Spettacoli

Ma come fanno i cantautori (40 anni di 'Banana Republic')

Dalla, De Gregori e un tour più forte degli anni di piombo e del destino. Il racconto di Ron e il libro di Ferdinando Molteni su quell'estate del 1979...

Lucio Dalla e Francesco De Gregori, 1979
8 giugno 2019
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Sul vinile si sente chiaro e forte: quando in ‘Ma come fanno i marinai’ parte il tema di clarinetto, lo stadio sta già fischiando senza pietà. Perché il divertissement tra cantautori impegnati, nell’estate del 1979, non era atto contemplato dal pubblico dei concerti all’aperto. Men che meno da due che venivano (Lucio Dalla) da ‘Com’è profondo il mare’ e (Francesco De Gregori) da un kafkiano “processo pubblico senza pubblico” (così lo definisce lui) tenutosi al Palalido di Milano nel 1976 in occasione del tour di ‘Buffalo Bill’, quando il cantautore di ‘Buonanotte fiorellino’ (“Una canzone borghese”, gli dissero) venne interrogato da alcuni militanti dell’estrema sinistra che lo accusavano “di aver guadagnato alle spalle dei più poveri e aver mostrato scarsa sensibilità alle tematiche del movimento operaio”. Dopo quel ‘Processo a De Gregori’ l’artista si prese una pausa dai concerti, lavorando presso un libraio e ponendo le basi dell’album che porta il solo suo cognome, aperto da ‘Generale’.
In verità, in quegli anni, fu tutta l’Italia a prendersi una lunga pausa dalla musica, dopo che l’inquietudine sociale arrivò a scagliare Molotov sui palchi del rock, allontanandolo dal Belpaese. La musica dal vivo tornò con quella serie di concerti chiamata ‘DallaDeGregori’ e soltanto più tardi – dovendo trovare un titolo per album e docufilm – ‘Banana Republic’.

Il carattere epocale di quell’evento da 600mila spettatori, la mobilitazione tecnica mai vista, i sette musicisti sul palco oltre ai due protagonisti e al direttore musicale Ron, sono ricostruiti con metodo storico da Ferdinando Molteni, giornalista, saggista, docente e musicista che si occupa da molti anni di canzone d’autore italiana. «Forse in quel momento non se ne rendevano conto – racconta alla ‘Regione’ l’autore di ‘Banana Republic 1979’, edito da Vololibero – ma stavano cambiando il modo di fruire della musica per almeno i trent’anni successivi. Andare per stadi in quegli anni era impensabile, i concerti erano eventi politici nei quali si parlava molto di più di quanto si suonasse. Da allora, e per molto tempo, la musica si farà negli spazi aperti in modo pacifico e senza connotazioni politiche. Non so se ne fossero consapevoli, però l’hanno fatto». Quanto all’inconsapevolezza, De Gregori l’avrebbe confermata al critico musicale Mario Luzzatto Fegiz qualche anno dopo il tour: “Non lo capii allora, ero troppo concentrato sull’importanza e sulla bellezza di quello che facevo con Lucio”.

La ‘Woodstock italiana’

Partì il 16 giugno del 1979 dal ‘Bacigalupo’ di Savona per terminare al ‘Neri’ di Rimini il 30 luglio la “Woodstock italiana”, come venne ribattezzata dal quotidiano La Stampa. Ventidue concerti con picchi di cinquanta-sessantamila persone a Napoli e Torino. Savonese di nascita, Molteni vide l’esordio nella sua città quand’era ancora «un adolescente che in vita sua aveva visto uno o due concerti prima di quello. Ricordo una grande gioia di stare insieme e anche una certa confusione sul palco, tanti musicisti che andavano e venivano, e a volte fingevano di suonare». Due, infatti, le band, una per cantautore: due terzi degli anglo-italiani Cyan con De Gregori, i futuri Stadio con Dalla. «Sono storico di formazione, tendo a cercare le fonti. Ho raccolto articoli di giornale, interviste, materiale che mi è servito a ricostruire la vicenda. Ho cercato di evitare memorie troppo a lungo termine, alcune cose dette dopo trenta-quarant’ anni sono meno efficaci».

C’è tutto quel che è da sapere nelle 117 pagine di questo libro: il palco lontano dagli spalti per evitare incidenti, il servizio di sicurezza affidato ai metalmeccanici della Fiom invece che alla Polizia, Dalla che fa la danza della pioggia affinché il temporale risparmi Savona per sfogare poco più in là, in un’altra città, sulla testa di un altro cantautore (“Gesù Gesù, non far piovere quaggiù, fai piovere più in là, che c’è Guccini che suonerà”). C’è anche il racconto dell’ultimo tentativo degli autoriduttori (vedi poco sotto) di entrare ‘a sbafo’ al ‘Rigamonti’ di Brescia, per il quale Molteni attinge dai ricordi di Gaetano Curreri nel suo libro 'Generazione di fenomeni'.

Caos Led Zeppelin, bombe su Santana

Un passo indietro. Ben prima di Napster, in Italia già esistevano i sostenitori della musica libera per tutti. Erano gli “autoriduttori”, movimento politico-musicale vicino alla sinistra rivoluzionaria. Prima di accusare il cantautorato di eccessivi guadagni e strumentalizzazione degli ideali di sinistra, gli autoriduttori si ritenevano in diritto di entrare gratis ai concerti in nome dell’essere, la musica, prodotto culturale accessibile alle masse. “Basta con l’industria della musica, no ai concerti a tremila lire” recitavano i volantini distribuiti il 5 luglio del 1971 per la prima e ultima volta dei Led Zeppelin in Italia, ospiti del Cantagiro (sic) al Vigorelli di Milano, il velodromo che nel 1965 aveva accolto i Beatles. A margine degli scontri di quella notte, i giornali titolarono “Entusiasmo e violenza a 8’000 watts”, “Gli Zeppelin nella battaglia”, “Al Cantagiro con le Molotov”, ma anche “Clamoroso tonfo di Gianni Morandi”, capro espiatorio di tutto quanto di non musicale accadde. Angelo Falvo, sul ‘Corriere’, ne aveva pure per Dalla: “Morandi si rifugia dietro le quinte, gli altri battono in ritirata, anche Dalla, che con la coppola, la barba e gli abiti stravaganti gioca all’anticonformista”.

“Distruggeremo la musica, è solo un prodotto borghese”. La Stampa del 1975 virgoletta le voci dei situazionisti dopo la cancellazione delle date italiane di Lou Reed. A Roma l’artista prova a salire sul palco dopo Angelo Branduardi: ma al Palasport è già guerriglia urbana a colpi di cubetti di porfido e lacrimogeni. Si andrà vicino al peggio un’ultima volta, di nuovo al Vigorelli, quando sul palco di Carlos Santana, “servo della Cia”, giunge una Molotov che (infilandosi tra sassi e bulloni già in volo) manda in fiamme strumenti e amplificatori. È il 13 settembre del 1977, e per molto tempo la musica eviterà accuratamente i luoghi pubblici.

Il 2 aprile del 1976, conclusa a fatica la data milanese del tour di ‘Buffalo Bill’, Francesco De Gregori viene riportato a forza sul palco del Palalido per quello che passerà alla storia come “Il processo a De Gregori”. Qualcuno gli dà del “Compagno da un milione a sera”, altri gli dicono che “la rivoluzione non si fa con la musica, ma prima si fa la rivoluzione e poi la musica”. Tra i “giudici” che contestano all’autore di ‘Alice’ di fare troppo la bella vita c’è anche tale Muciaccia, leader dei Kaos Rock, più tardi regista per TvModa (canale satellitare che ha la musica di Jo Squillo, quella di “Violentami violentami sul metrò”...).

‘Un’improbabile coppia’

In ‘Banana Republic 1979’ ha un suo posto anche la genesi del disco dal vivo, affidata alla troupe che curò il live De André-Pfm, tecnicamente un signor disco. Nel caso di Dalla e De Gregori, invece, l’urgenza di pubblicare e gli imprevisti (si doveva registrare al ‘Dall’Ara’ di Bologna, città di Lucio, ma piovve e il concerto saltò) condussero a un vinile che non è proprio una pietra miliare della registrazione. A partire dagli applausi “finti e improbabili” (De Gregori dixit) per i quali si sfiorò la causa legale.

Le interviste recuperate da Molteni spaziano tra le visioni future di Dalla – che al giornalista Giorgio Bocca fa un ritratto delle radio libere che tanto somiglia all’odierno web – alle parole di De Gregori, trasudanti stima per il collega. «Francesco è uomo che passa per algido e riservato – conclude Molteni – ma che ha sempre manifestato il suo trasporto per Lucio. Credo che ‘Banana Republic’ sia anche la storia di un’amicizia, di un rapporto che ha incluso anche scontri e incomprensioni, ma comunque profondo. Del resto il tour che fecero poco prima che Dalla morisse ne è la testimonianza».

Correva l’anno 2010, e il live ‘Work in progress’ è lì a testimoniare (per dirla con Molteni) “l’ultimo, fragile, consapevole e definitivo capolavoro di un’improbabile coppia di cantanti italiani che seppe illuminare di semplice gioia, per la durata di una breve e intensa estate, gli anni oscuri di questo strano paese”.

Ron: ‘Tempi difficili, ma la musica ci portò lontano’

“C’è molta rabbia. La tensione riempie le giornate e le strade. E noi, che non siamo né politici né militari, che non stiamo al governo, ma siamo solo cantanti, al massimo espressione di un sentire sociale, siamo comunque in difficoltà. A prescindere dallo schieramento politico”. Così descrive Ron quei giorni di musica fuorilegge (la legge di alcuni) nell’autobiografia intitolata ‘Chissà se lo sai’, il racconto onesto di un professionista della musica. “Non sono mai stato un cantante politicizzato. Non ho mai accettato che la mia musica potesse essere strumentalizzata”, si legge tra i capitoli che narrano degli esordi e di quello stigma che accomunava lui e Dalla, gli esordi sanremesi che non erano gli stessi di De Gregori.

‘Tirava aria di guerra’

Lui che ‘Banana Republic’ l’ha fatto per intero, da direttore musicale e con uno spazio tutto per sé in scaletta, il tour lo ricorda alla ‘Regione’ così: «Erano tempi difficili. Ti posso dire che fu quasi una scommessa. Erano gli anni di piombo e i cantanti quelli pop, quelli cioè non impegnati, erano tagliati fuori. Tirava aria di guerra, sembrava di essere sotto il controllo dei tedeschi durante la Seconda guerra mondiale. Non si scherzava, molti artisti si fermarono con il proprio lavoro…». Come Morandi, sopravvissuto ai disordini del Vigorelli del 1971, che nel 1977 si era iscritto al Conservatorio; o come gli stessi Dalla e De Gregori, che iniziarono a circolare a bordo di utilitarie. “Poteva essere anche una scelta giusta, coerente con quelle idee che proclamavano – scrive Ron nel suo libro – ma fu pur sempre una scelta imposta per evitare rappresaglie”. Tornando a oggi: «Quello che resta è un evento irripetibile. Solo dopo che iniziammo ci rendemmo conto che tutto era possibile. La gente cominciò ad arrivare a frotte e si scoprì che si poteva assistere a quell'evento in tutta tranquillità. Posso dire che sta proprio lì l'eredità di quei concerti, quella di dimostrare soprattutto a noi stessi che la musica, la forza di volontà e il divertimento ci aveva portati molto lontano».

La star e nessun altro

Tensioni politiche a parte, per il Ron solista non fu affatto facile. Così nell’autobiografia: “Banana Republic è un tour di stadi sempre strapieni, ma solo in due o tre occasioni la mia esibizione va liscia. Liscia non vuol dire che piaccio, ma solo che mi sopportano senza privarsi della propria bibita”. Erano tempi in cui l’x-factor andava testato davanti a un pubblico che non ti conosceva ancora, o voleva la star e nessun altro. Tempi in cui l’opening act era abitudine ancora di là da venire. Ancor più difficile prendersi il palco non prima di tutti, bensì a metà concerto per cantare ‘I ragazzi italiani’ (scritta con Dalla e De Gregori) e ‘Come va’ (con il solo Lucio). Così Ron oggi: «Come solista, mi resi conto che non era per niente facile, la gente difficilmente sopportava sul palco altri artisti meno noti. Ho dovuto combattere molto».

‘Il terzo uomo’

Oltre che di ‘Banana Republic’, Ron è il direttore musicale di se stesso. Anche oggi che porta in giro ‘Lucio!!’, tributo che, oltre alla versione in studio, ha pure un corrispettivo dal vivo. Per quella serie di concerti dell’estate ‘79, gli cucirono addosso il termine di music maker. Ma lo chiamarono anche “Il terzo uomo”, parafrasando il film. «Ero felice e il lavoro con gli Stadio e col gruppo di Francesco andò a meraviglia, anche se si fecero molte prove. C'era nell'aria un senso di libertà, tutto funzionò a meraviglia». Non ricorda la genesi di ‘Ma come fanno i marinai’, sebbene ci fosse anche lui a casa di De Gregori, quando Francesco tirò fuori dal cassetto un’idea non finita accendendo la miccia del tour. Si sa solo che Dalla raccolse lo spunto e in quella bozza infilò il tema di clarinetto di cui sopra, con l’andamento sornione per il quale ancora oggi si tende l’orecchio. «Altro da ricordare? Dirò le cinquantasessantamila persone che cantavano tutte insieme, un’esperienza davvero emozionante da vivere. Momenti belli erano anche i viaggi. Lucio in quei giorni era come un ragazzino, si divertiva come un pazzo. Si è riso tanto anche grazie a lui...».

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