Spettacoli

PFM: 'Folgorati sulla via di Liverpool'

Premiata Forneria Marconi in Piazza del Sole a Bellinzona per gli annuali Beatles Days, venerdì 3 agosto

(PFM - foto: Lorenzo Ceva Valla)
31 luglio 2018
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I ‘Giorni dei Beatles’ sono alle porte. Torna in piazza del Sole a Bellinzona la musica in onore e per conto dei Favolosi Quattro di Liverpool, tradizionalmente sotto il nome di ‘Beatles Days’. Si comincia giovedì 2 agosto al Bar Viale con i Tree Size; si chiude sabato 4 con i Beatlestory, già definiti “Il più grande omaggio ai Beatles 50 anni dopo”. In mezzo, di venerdì 3 agosto, il duo Moon & Sun, Ricky Gianco e il main act rappresentato dalla Premiata Forneria Marconi, più brevemente detta Pfm.

Sulla scia di un nuovo album intitolato ‘Emotional tatoos’, con alle spalle un tour giapponese e davanti la ‘Cruise to the edge’, raduno di grandi band del prog capitanate dagli Yes, la storica formazione italiana porta in piazza una storia iniziata nel 1971 e ancora da raccontare. E a raccontarla alla ‘Regione’ ci pensa Franz Di Cioccio.

La PFM ai Beatles Days: dunque, anche voi dovete qualcosa ai Beatles...
Siamo stati folgorati sulla via di Liverpool, abbiamo avuto ‘la visione’ un po’ come tutti in un’epoca nella quale non si poteva rimanere indifferenti a un tale lancio di possibilità musicali e artistiche. Personalmente, amavo John Lennon, ma preferivo i Rolling Stones ai Beatles. Gli Stones erano più grezzi, più dentro il blues, avevano frequentato musica più sporca. Ma i Beatles sono impagabili.

Compreso il sottovalutato Ringo...
Ringo Starr era un grande, l’ho sempre sostenuto. È un po’ come vedere le vecchie corse in bicicletta, quelli che facevano il Tourmalet, il Bondone con i tubolari incrociati tra le scapole. Il ciclismo era quello lì, non il cambio da duecento rapporti. Quando Ringo Starr ha iniziato non c’era quel tipo di tempo, il beat non si faceva. Lui, tra l’altro, girava la bacchetta per dare il colpo ancora più forte, si diceva che usava ‘il culo’ della bacchetta. Suonava dritto, in posizione da timpanista, un’assoluta novità perché la posizione dei batteristi dell’epoca era quella insegnata col jazz. Ringo ha messo le basi per quelli che si sono appassionati al genere.

In ‘The Beatles Anthology’ si racconta di quando Ringo stava per lasciare, colpa anche del fatto che nei concerti non sentiva quello che suonava...
Io i Beatles li ho visti a Milano al Vigorelli. Parliamo dei primordi, del paleozoico dei concerti. Gli impianti di oggi non esistevano. Adesso una batteria amplificata può avere anche decine di microfoni.

È dato sapere cosa suonerete, dei Beatles, a Bellinzona?
Non lo so ancora. Abbiamo suonato spesso e in tempi non sospetti ‘Eleanor Rigby’ in versione molto particolare. Qualcosa si sentirà, non posso anticipare. C’è un pezzo in particolare, con un sapore beatleasiano molto bello. A un certo punto entra un mellotron che fa appoggi alla... dai, non chiedermi altro.

Anno 1980, ‘Musicalmente’, Rsi. Il presentatore chiede: “Come sarà la musica del Duemila?”.
E noi cosa abbiamo risposto? Che sarebbe stata una musica muscolare, non cerebrale. Ti rifaccio la domanda: com’è la musica del Duemila?
Non abbiamo mai seguito la moda, devo dire. Se siamo ancora qui, forse è perché abbiamo fatto la scelta di suonare quello che ci piace. Siamo contro la discriminazione di genere, la musica è bella tutta e va accettata per quello che è. Se hai due orecchie, goditela. Gli animali non riescono a distinguere gli strumenti, però qualche effetto gli fa. So che le mucche fanno un latte più buono con Bach.

Qualche allevatore svizzero potrebbe provare con il rock...
Mi piacerebbe vedere le mucche quando entra la chitarra di David Gilmour su ‘Shine on you crazy diamond’. Vorrei sapere che latte farebbero con quelle quattro note magiche. La musica è potente, godiamocela perché è un dono, non so se di Dio o di chi altri, ma è un dono del quale godere. Non esiste “questo è bello e questo è brutto”. Tu ascolta la musica che ti piace e già hai vinto, sei già nel nirvana.

Hai detto che tra un buon disco di rap e uno di jazz non c’è differenza...
Non apprezzavo il jazz sino al giorno in cui una persona mi ha spiegato in tre parole lo spirito che ci sta dentro. Bisogna entrare nel climax di quello che si ascolta, non ascoltare un genere musicale come farebbe una setta. Ho frequentato sempre tutta la musica, la amo tutta e sono qui che mi diverto ancora. Non mi sono fatto mancare i Gods of Metal e nemmeno Paco De Lucia, John McLaughlin e Al Di Meola, con Trilok Gurtu. Un altro approccio sbagliato è amare la musica pensando di essere in grado di fare altrettanto. A me piace Leonardo, ma so già che non disegnerò mai così. C’è da togliere l’ego dal teleschermo, metterlo fuori e aprire la mente: “Picture yourself in a boat on a river with tangerine trees and marmalade skies” (“Lucy in the Sky with Diamonds”, The Beatles, ndr).

‘Fabrizio De André in concerto’ è ‘Shadows and lights’ di Joni Mitchell un anno prima. Il poeta mette alla prova il proprio lavoro affidandolo a un gruppo di virtuosi. Com’è successo?
Bisognava convincere lui. Il pazzo che gli suggerì che in America si facevano tournée di questo tipo fui io. L’idea che qui in Italia nessuno avesse mai fatto cose del genere stregò Fabrizio, che era una persona molto creativa, ma aveva un suo mondo. Per una volta tanto si è fidato, non so come abbia fatto, ma lo ha fatto.

Qualcuno pronosticò un fiasco...
Non è stato facile, ma abbiamo fatto una cosa che credo abbia cambiato il corso della musica italiana. Quel disco dimostra che nulla è impossibile e che l’abbraccio tra rock e poesia non era una bestemmia. Oggi il De André con quegli arrangiamenti, prendi ‘Il pescatore’, è il De André più ascoltato. Ha una gioia e una vitalità che solo il rock possono dare, unite alla profondità letteraria di un poeta. Fu tutto un po’ una follia, come in ‘Giugno ’73’ quando entrano i campanelli. Li avevo visti su un catalogo della Zildjian e li volli per il solo gusto di sentirli suonare. Poi trovai il modo di usarli.

‘Emotional tatoos’, inedito e doppio. Non bastava un bel ‘Greatest hits’?
Sono nato sui monti dell’Abruzzo, in mezzo ai lupi e alle foreste, ho il senso della spericolatezza. Patrick Djivas è francese, ha vissuto in Tunisia, è greco di nascita, è cosmopolita. Dentro questo disco non dobbiamo ricordare chi siamo, non dobbiamo dimostrare che siamo prog. C’è il rock, c’è la ballad, c’è il suono e la vitalità di Pfm. Dico sempre che il successo è il participio passato del verbo “succedere”; se tu non fai niente, non fai succedere niente, e se non fai succedere niente, non fai successo. Si guarda avanti sempre perché è così. Altrimenti fai la replica di te stesso, e quello è solo business.

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