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Marcello Foa contro ‘il sistema (in)visibile’

L’ex Ad del Corriere del Ticino e presidente della Rai ha scritto un nuovo libro contro le presunte collusioni di un’élite globale. Lo intervistiamo

(Ti-Press)
10 ottobre 2022
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‘Il sistema (in)visibile. Perché non siamo più padroni del nostro destino’. Il titolo dell’ultimo libro di Marcello Foa, già amministratore delegato del Gruppo Corriere del Ticino e presidente della Rai, fa capire subito di cosa si parla. Ovvero del presunto contrasto tra una ‘rete’ globale giudicata sempre più potente e antidemocratica e il cosiddetto uomo comune. Il volume, appena giunto in libreria per i tipi di Guerini e Associati, chiama in causa anche i media e continua così il discorso iniziato con ‘Gli stregoni della notizia’. Ne abbiamo discusso direttamente con Foa, che martedì è stato all’Università della Svizzera italiana per presentare l’opera.

Qual è la sua tesi?

Parto da una constatazione: durante la guerra fredda, la democrazia occidentale ha prevalso anche perché c’era una coincidenza tra i nostri valori, la realtà e la propaganda. La società era equilibrata, il mercato creava benessere ma era bilanciato da contropoteri, l’Est privo di libertà e sicurezza economica guardava all’Ovest come a un modello. Questo equilibrio si è spezzato con la globalizzazione, che ha creato un malessere molto diffuso e percepito, ma mai messo a fuoco dalle élite. Il risultato è una chiara crisi della democrazia.

Nel libro descrive una sorta di mega-lobby transnazionale, una rete flessibile (‘flex net’) che unirebbe Obama, Clinton, Biden, Stoltenberg, Guterres, Blair, Draghi, Macron, Lagarde, Schröder, Renzi, la grande finanza… Non rischia di cadere nel complottismo?

Non credo che ci sia una Spectre che comanda il mondo, o cose del genere. Ma da giornalista ho imparato a scavare per capire come si esercita il potere nelle nostre società. Una lettura molto convincente la trovai anni fa in un saggio dell’antropologa e docente universitaria Janine Wedel, ‘Shadow Elite’ (élite-ombra, ndr): la tesi, elogiata perfino dal Financial Times e che riprendo perché ancora attuale, è che le élite di un tempo abbiano cambiato natura e ora si intreccino in modo indissolubile sempre più interessi: siamo nell’era non più del conflitto ma della coincidenza di interessi.

Una collusione che passerebbe dai grandi media. Eppure anche lei, con la presidenza della Rai, si è trovato nel salotto buono del giornalismo. Cosa la distingue da quell’élite?

Da allievo di Indro Montanelli ho potuto metabolizzare una visione autenticamente liberale, in cui la stampa fa da cane da guardia del sistema democratico e deve riflettere la pluralità di opinioni. Questa è stata la mia linea anche in Rai. Purtroppo la grande stampa è diventata troppo conformista e vicina al potere politico, fino a sfociare in un mainstream sempre più stringente.

Anche lei però è arrivato in Rai grazie alla politica, come ‘presidente di Salvini’. Come si fa a essere indipendenti?

La mia nomina, che giunse del tutto inaspettata, fu sostenuta tanto dalla Lega quanto dal Movimento 5 Stelle, allora al governo insieme. Mi chiamarono perché volevano alla presidenza della Rai un giornalista indipendente, che non appartenesse all’establishment romano e con un profilo internazionale, autorevolmente fuori dagli schemi. Sappiamo poi quali polemiche, quelle sì a sfondo politico, investirono la mia nomina.

Se la ‘flex net’ è così forte, perché alle elezioni vincono spesso personaggi come Donald Trump e Giorgia Meloni, che lei descrive come outsider?

Fortunatamente certi meccanismi democratici ancora funzionano, mentre l’establishment si è chiuso nel suo mondo, perdendo il contatto con ampie fasce della popolazione schiacciate sempre più verso il basso. È nato così un dissenso che in America, ad esempio, fu interpretato tanto da Bernie Sanders quanto da Donald Trump.

Ma Trump è un multimiliardario, una persona che certi ambienti (anche mediatici) hanno spinto spudoratamente, un presidente in grado di fomentare l’assalto al Campidoglio. Mica tanto outsider.

Trump ovviamente gode di un certo potere economico, ma essendo critico sulla gestione della globalizzazione è stato contrastato con strategie precise, sia mediatiche che politiche e giudiziarie. Se d’altronde fosse davvero un membro dell’establishment, c’è da chiedersi perché lo si osteggi così pesantemente.

Forse perché in realtà non c’è un solo establishment, ma classi dirigenti anche molto eterogenee e dagli interessi e valori talora divergenti.

Bisogna sforzarsi di capire come viene gestito il potere negli Usa. Ad esempio: un prestigioso think tank come il Council on Foreign Relations fornisce almeno il 50% degli alti funzionari alle amministrazioni Usa di qualsiasi schieramento, tranne che a Trump. Finché quell’élite rispetta la volontà popolare, può avere un ruolo virtuoso di continuità delle competenze e di stabilità. Quando però diventa chiusa e autoreferenziale agevola l’emergere di movimenti di protesta e nasce lo scontro.

Veniamo all’Europa. Lei scrive che "l’europeismo è in origine ‘made in Usa’, frutto delle menti creative della Cia". Dovremmo credere che padri dell’Europa come Altiero Spinelli – eletto peraltro nelle liste comuniste – fossero manipolati da Washington?

No, parlare di manipolazione è esagerato. Mi rifaccio solo a un saggio molto bello di Frances Stonor Saunders, ‘Gli intellettuali e la Cia’: attingendo a documenti desecretati, Saunders ricostruisce la guerra fredda culturale tra Cia e Kgb, concludendo che gli Usa esercitarono la loro influenza per incoraggiare in Europa il federalismo.

Certo, ma quello federalista è uno slancio che nasceva dall’interno, dopo aver visto il nazionalismo insanguinare le trincee: cosa c’è di male?

Io credo che l’epoca dei nazionalismi sia definitivamente tramontata, mentre il multilateralismo propriamente inteso – quello che permette ai singoli Stati di dialogare senza combattere – è degenerato in un processo di crescente delega e perdita di sovranità. Si indebolisce la democrazia ovvero il governo del popolo.

Il ‘governo del popolo’, la Volksregierung, è però anche una chimera populista con un passato non proprio onorevole. La democrazia liberale invece si basa sulla delega. Il padre del conservatorismo Edmund Burke diceva che "il vostro rappresentante vi deve non solo il suo impegno, ma anche la sua capacità di giudizio: vi tradirebbe, se la sacrificasse alla vostra". Non sarà rischioso, tutto questo antielitismo?

Ribalto la riflessione: se le élite sanno guidare i popoli rispettando il bene comune, i problemi non si pongono. Ma quando si stabiliscono certi meccanismi distorti per cui, come dico nel sottotitolo del mio libro, i cittadini non si sentono più padroni del proprio destino, allora si vanno a minacciare direttamente la libertà e la democrazia. L’antielitismo è un segnale di disagio legato a questo disallineamento.

Venendo al Covid, nel libro lei critica Anthony Fauci e definisce il vaccino "sperimentale". Aggiunge che "è confortante e bellissimo che la coscienza civile della nostra società si sia ridestata in reazione alla pandemia di Covid". Strizza l’occhio ai No Vax?

Pongo il problema delle pressioni che politica e industria farmaceutica hanno esercitato su organismi di controllo sanitario come Oms ed Ema. Analizzando crisi sanitarie precedenti – mucca pazza, Zika, aviaria… – si è ricostruito come quegli allarmi siano stati strumentalizzati. L’indipendenza è fondamentale: ora che, si spera, stiamo uscendo dal Covid, dovremmo studiare criticamente anche questa crisi.

Ma il Covid ha fatto milioni di morti, mentre la pronta reazione delle istituzioni e della medicina ha consentito di trovare un vaccino sicuro a tempo record. Si possono discutere tante singole scelte, ma non è questo un esempio di come certe ‘élite’, forti delle loro competenze, non siano poi da buttare via?

Però c’è ancora buio circa gli affetti avversi del vaccino. Dobbiamo superare le visceralità inevitabilmente emerse durante la crisi e affrontare queste tematiche con distacco e oggettività, per imparare tutti qualcosa. Questo è un compito che spetta a democrazie sane. Ne va anche della fiducia nelle istituzioni.

Passiamo alle fonti del suo libro: molte – ad esempio l’eccellente ‘Capitalismo della sorveglianza’ di Shoshana Zuboff – sono attendibili e solide, ma ci sono anche siti di dubbia fama (ZeroHedge, OffGuardian, Come Don Chisciotte), un noto antivaccinista (Robert Kennedy Junior) e così via. Come ha proceduto nel selezionarle e verificarle?

ZeroHedge è un sito anticonformista molto letto in ambito finanziario, Kennedy è un Kennedy… ma il punto fondamentale è: se non trovo sulla stampa mainstream una varietà di opinioni, perché non cercarle altrove? Naturalmente affidandomi a studiosi e giornalisti qualificati.

È stato criticato per la sua presunta vicinanza ai media russi; anni fa dichiarò che "Putin ha invaso la Crimea dopo che c’è stato un colpo di Stato a Kiev", quella che per molti fu invece la rivolta popolare e democratica dell’Euromaidan. Ha cambiato idea?

Sono stato intervistato da molte testate internazionali, in passato anche Russia Today, che non mi ha mai censurato, o la Bbc, di cui sono stato collaboratore per oltre dieci anni. Espressioni giornalisticamente indipendenti sono state strumentalizzate per tentare di screditare la mia persona. Quanto all’Euromaidan, mi limitai a ricordare – sulla base di fonti solidissime – che c’era stato un ruolo americano nell’agevolare la protesta, come ricostruito ad esempio da Repubblica e Bbc e ammesso anche da diplomatici Usa quali Victoria Nuland. Questo non toglie l’aspetto di protesta popolare, ma vi aggiunge altre sfaccettature meno ‘romantiche’.

Quella che vediamo ora, però, è un’invasione brutale. Come la giudica?

Ho detto fin dall’inizio che Vladimir Putin ha commesso un errore inimmaginabile, da subito ho dichiarato che il presidente russo ha perso, comunque vada a finire. Posso solo ribadirlo.

Ma si può anche perdere avendo ragione. Putin perde perché ha sbagliato i calcoli anche se non aveva tutti i torti, o perché la sua carneficina ha scatenato la reazione che si meritava?

Per rispondere occorre elevare la riflessione: come ha fatto notare Henry Kissinger, dobbiamo leggere questi fatti nel contesto strategico a lungo termine, in cui l’Occidente aveva tutto l’interesse a legare a sé la Russia per isolare il rivale cinese. Ma a partire dalla prima rivoluzione arancione Putin, che fino ad allora era amico di Washington, ha cessato di esserlo. Non so perché sia successo, tuttavia da lì è partita un’escalation da entrambe le parti che comporta gravi rischi, da quello energetico a quello nucleare.

Ha in cantiere qualche nuovo progetto in Ticino?

Insegno all’Usi e nella mia Lugano trovo l’ispirazione per scrivere i libri.

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