Società

Il ricordo è uno strumento potente

Intervista a Toni Ricciardi sulla storia dell’esodo degli italiani in Svizzera in un libro: ‘Testimoniare è un dovere civile e morale per combattere la xenofobia’

Lavoratori italiani stagionali (foto: Keystone)
19 febbraio 2018
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«La storia serve a ricostruire il divenire dei momenti. Oggi siamo ciò che siamo stati. Il problema è la facile tendenza delle persone – per paura, difficoltà economiche… – a dimenticare; a voler dimenticare. La prima generazione di migranti italiani (quella delle baracche, del ricongiungimento familiare, dei figli clandestini) ha il dovere civile e morale di testimoniare quella storia. Così facendo si crea lo strumento più potente ed efficace contro la xenofobia». Iniziamo dalla fine; dalle parole conclusive della nostra chiacchierata con Toni Ricciardi, autore dell’interessante e recente “Breve storia dell’emigrazione italiana in Svizzera. Dall’esodo di massa alle nuove mobilità” (Donzelli, 2018).

Le parole di Ricciardi, e potremmo chiudere qui l’articolo, sono la risposta alla domanda immediata e scontata (però cardinale), perché ancora nel 2018 c’è la necessità di raccontare storie di emigrazione? Non cadiamo nel passatismo?


Toni Ricciardi, di origini irpine con un passato e un presente da emigrante, è storico delle migrazioni presso l’Università di Ginevra. È autore di numerose pubblicazioni, fra cui “Morire a Mattmark. L’ultima tragedia dell’emigrazione italiana” (2015; gli è valso il premio ‘La valigia di cartone’); “Marcinelle, 1956. Quando la vita valeva meno del carbone” (2016).

E, recentemente, “Breve storia dell’emigrazione italiana in Svizzera (…)”, volume che dalla fine dell’Ottocento – «l’epoca dei grandi trafori» – alla contemporaneità traccia la storia degli immigrati nella Confederazione (casa “della terza comunità italiana nel mondo”), passando per i momenti di cesura del secondo dopoguerra e degli anni Novanta, arrivando agli ultimi decenni. Il fil rouge dipanato pagina dopo pagina è l’evoluzione della percezione del migrante da parte del paese ospite.


Che cosa cambia dalla migrazione di ieri a quella di oggi?

Paradossalmente, cambia tutto e non cambia nulla. Tutto, perché le distanze si sono accorciate. La presenza nei luoghi, di partenza ma anche d’arrivo, è diversa. Mobilità, abbattimento di distanze e costi consentono di spostarsi facilmente: si sono create le condizioni per un pendolarismo a lungo raggio. Una persona quindi riesce a vivere due luoghi con maggiore frequenza. Parimenti, molte cose sono rimaste uguali: 50 anni fa si arrivava in Svizzera col passaporto turistico e le istituzioni acconsentivano. Si entrava da irregolari e poi si sanava la posizione nel momento in cui si trovava lavoro. Ci sono state discussioni ancora negli anni 80 su questa vicenda, su come affrontarla. Ieri, c’erano i passaporti turistici; oggi, c’è la libera circolazione, accordi siglati nel 2002. Ciò che accomuna entrambe le esperienze è il concetto di mancanza.


Che cosa intende?

Nell’esperienza migratoria di ieri e oggi, anche se ci sono affermazione professionale, economica, sociale, nasce sempre un sentimento di mancanza. Questa, forse, è la connotazione archetipica del migrante; elemento che accomuna il migrante di ieri con quello di oggi.
Per quel che concerne l’accettazione sociale, che cos’è cambiato?
Ieri come oggi, la questione determinante è la condizione di partenza. Anche 50 anni fa, coloro che avevano una formazione professionale o un’istruzione elevate incontravano meno difficoltà, almeno sulla carta. Anche oggi, di là delle singolarità biografiche, più strumenti formativi si hanno, più “facilità” si avrà nel percorso migratorio. Nel caso della Svizzera poi, sarebbe necessario fare dei distinguo…

Per quel che concerne l’accettazione sociale, che cos’è cambiato?

Ieri come oggi, la questione determinante è la condizione di partenza. Anche 50 anni fa, coloro che avevano una formazione professionale o un’istruzione elevate incontravano meno difficoltà, almeno sulla carta. Anche oggi, al di là delle singolarità biografiche, più strumenti formativi si possiedono, più “facilità” si avrà nel percorso migratorio. Nel caso della Svizzera, poi, sarebbe necessario fare dei distinguo…

 
Perché?

Storicamente, le condizioni erano diverse per gli italiani che migravano in Ticino e quelli che raggiungevano cantoni germanofoni. Nella stessa Svizzera esistevano migrazioni e presenze italiane diversificate, date dal contesto e dalle politiche migratorie. Negli ultimi decenni, c’è stato un cambiamento dovuto alla normalizzazione con il modello della Svizzera tedesca. Questo perché oggi la dicotomia in Svizzera non è più data dalle aree linguistiche, ma dagli assetti socioeconomici: i luoghi urbani tendono sempre più a mostrare apertura nei confronti di mobilità e arrivo dell’altro; mentre quelli rurali – che vivono indubbiamente difficoltà socioeconomiche maggiori e paure più profonde – tendono invece alla chiusura.


Dalla sua bibliografia professionale, è lampante la passione per il fenomeno migratorio. Come mai?

In parte per ragioni biografiche. Sono un migrante di seconda generazione, ma anche di prima. Mi spiego meglio: fino al ’92 sono stato un migrante di seconda generazione, perché arrivato in Svizzera all’età di 8 mesi. Sono rimasto qui fino ai 4 anni come bambino clandestino, storia che accomuna migliaia di bambini di quel periodo. Una volta rientrato in Italia, il mio percorso formativo, liceo e università, l’ho tracciato a Napoli. Nel 2010, ho avuto la fortuna di vincere una borsa post-doc all’Archivio sociale di Zurigo, grazie alla quale mi sono affiliato all’Università di Ginevra, dove tuttora vivo e lavoro; condizione che mi definisce migrante di prima generazione.


La prima esperienza è stata quindi determinante…

Indubbiamente, è quella che più mi ha segnato negli anni di vita più delicati. È stata un’esperienza importante per conoscere e comprendere le dinamiche migratorie e costruire ragionamenti di carattere scientifico, aiutandomi nel mio lavoro.


E quella che sta vivendo?

Mi dà la possibilità di crescere, soprattutto, trasformando la mia passione e il mio percorso di vita in una professione. Il cammino accademico mi ha dato anche la possibilità di superare alcune difficoltà personali, intime che sono lo strascico della prima esperienza migratoria.

Nel clima sociopolitico di questi anni, stiamo vivendo un momento in cui chiusura ed esclusione sono sempre più ordinarie; voler dimenticare il passato provoca una corsa inesorabile verso l’ineluttabile cancellazione della memoria collettiva. Rileggere la storia, o meglio, le storie di migrazione (e non solo) è vitale, perché conoscendo e comprendendo le dinamiche passate si può scongiurare la ripetizione di errori (e orrori).

Chiudiamo, citando una bella tavola del nuovo fumetto di Zerocalcare: “(…) Hai capito perché studiamo?”; “(…) Perché sennò ci scordiamo.”; “(…) E che succede se ci scordiamo?”; “Non sappiamo più riconoscere le cose feroci. Per noi e per gli altri”.

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