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La lotteria del Dna e la sfida dell’uguaglianza

Secondo la progressista Paige Harden, ‘l’egualitarismo che presuppone l’uniformità genetica è una casa costruita sulla sabbia’

Kathryn Paige Harden
17 marzo 2023
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Buttando un occhio all’ala più progressista dello spettro politico, notiamo subito una certa schizofrenia nel modo di discutere la genetica: da una parte, tutti accettano il fatto che il nostro Dna ha un ruolo fondamentale nel definire se siamo alti o bassi, glabri o irsuti, miopi, calvi e così via; dall’altra, nessuno si azzarda a riconoscere a quella doppia elica un ruolo simile nel determinare le nostre condizioni sociali, che si tratti di essere scarsi in matematica oppure sottopagati al lavoro. Quelli, ci diciamo, sono risultati dell’ambiente: la famiglia, la scuola, il mercato del lavoro. Se ammettessimo anche solo un tenue influsso della genetica, rischieremmo di darla vinta a quelli per i quali la ‘natura’ decide tutto, ottima scusa per rinunciare completamente a qualsiasi programma di supporto educativo ed economico: ché per certa gente le differenze, come sentiamo spesso dire anche dalle nostre parti, sono dovute all’essere ‘fatti diversi’, sicché uno Stato che cercasse di attenuarne gli effetti giocherellerebbe troppo con l’ingegneria sociale. Come se non bastasse, in passato la genetica è stata strumentalizzata per sdoganare il razzismo e agghiaccianti programmi eugenetici, incluse le sterilizzazioni di giovani ‘problematiche’, che in Svizzera si sono prolungate fino agli anni Settanta.

Non stupisce, dunque, che quando la liberal Kathryn Paige Harden iniziò a parlare coi suoi colleghi del "perché il Dna è importante per l’uguaglianza sociale" – traduzione del sottotitolo originale al saggio ‘La lotteria dei geni’ –, costoro abbiano paragonato la professoressa di Psicologia Clinica all’Università del Texas a quelli che negano l’Olocausto: avanti così, si è detto, e si finirà nello stesso mazzo di chi usa la genetica per millantare gerarchie tra le razze, oltre che tra gli individui. Eppure l’intenzione di Harden è esattamente opposta: capire come il genoma (la totalità dei nostri cromosomi) possa influenzare le nostre vite, per aiutarci a renderle un po’ meno inique, partendo dal dato biologico per fornire nuovi, più efficaci strumenti a chi si occupa di riforme educative e sociali. Perché come scrive nel suo libro, "una società che protegge – o meglio: ama – le persone più vulnerabili, al momento di scegliere dev’essere in grado di capire chi è davvero più vulnerabile, in modo da comprendere quale impatto avranno su di lui tali scelte".

Harden, lei si definisce una "empirista da Matteo 25:40" ("Rispondendo, il Re dirà loro: in verità vi dico, ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me"). Come si concilia questo approccio egualitario con la genetica comportamentale, che studia i legami tra il nostro patrimonio genetico e la nostra ‘pagella’ caratteriale e sociale, ad esempio in termini di successo scolastico e lavorativo?

Ho indicato il versetto evangelico per sottolineare quanto il riferimento generalista a ‘destra’ e ‘sinistra’ rischi di farci sfuggire importanti differenze anche tra persone che condividono i medesimi valori. L’idea è quella di attenersi al monito sull’uguaglianza – su quanto sia importante che le persone possano partecipare in modo più equo alla distribuzione della ricchezza e del potere –, ma allo stesso tempo perseguire quell’obiettivo in modo pragmatico, ‘empirico’ appunto: credo che la scienza fornisca grandi strumenti per farlo. Tra questi c’è anche la genetica comportamentale, che permettendo di comprendere le differenze tra una persona e l’altra, ci consente anche di capire meglio come fare a combattere le disuguaglianze.

Lo scetticismo verso la genetica comportamentale viene anche dai molti fallimenti che questa scienza ha inanellato tra gli anni Novanta e i primi Duemila. All’epoca tutti parevano alla ricerca di legami univoci tra singoli "geni candidati" e ogni sorta di conseguenza, dalle preferenze sessuali alle capacità di calcolo. Non si arrivò da nessuna parte. Da allora, cos’è cambiato?

Abbiamo imparato da quegli stessi fallimenti, comprendendo che testare gli effetti di un singolo gene in una dozzina di persone non era abbastanza: si trattava di esperimenti non replicabili, e proprio quella ‘crisi della replicabilità’ investì diverse discipline. Capimmo dunque che l’impatto di un solo gene è relativamente limitato: avremmo dovuto osservare quello combinato di centinaia di migliaia di geni su centinaia di migliaia, addirittura milioni di persone per individuare qualche tendenza. Questo approccio più ampio è arrivato con i cosiddetti ‘studi di associazione genome-wide’, che ci permettono di osservare singole variazioni disseminate lungo tutto il genoma. Se prima guardavamo le rocce, ora osserviamo i granelli di sabbia.

Lo fate attraverso enormi mappature genetiche che raccolgono i dati di milioni di persone in decine di Paesi, in modo da trovare quel che le accomuna al netto delle differenze ‘ambientali’ e sociali. Ma cosa vi stanno raccontando quei granelli di sabbia?

Da una parte, abbiamo avuto conferma del fatto che quasi ogni aspetto che ci interessa – dal successo accademico alla personalità fino alle malattie mentali – è fortemente poligenico: gli esiti sono influenzati da un numero enorme di geni, non si può individuare un singolo ‘gene responsabile’ e anche l’effetto di un set più ampio rientra nella dimensione della probabilità, impedendo qualsiasi determinismo. D’altra parte, anche se ogni singolo gene ha un ruolo limitato, sommando gli effetti di ciascuno lungo l’intero genoma – quello che chiamiamo un indice poligenico – se ne può osservare l’effetto combinato, tanto forte quanto quello di altre variabili ‘classiche’ quali l’ambiente familiare e il reddito. Questo non ci consente di prevedere un destino individuale, ma d’altronde neppure altre variabili lo permettono.

Questi risultati la spingono ad affermare che "costruire il proprio impegno per l’uguaglianza su un’ipotesi di uniformità genetica è come costruire una casa sulla sabbia". Ma come è possibile adeguare le proprie politiche sociali alle differenze genetiche?

Tali politiche dipendono sempre dagli obiettivi che riteniamo importanti e da come proviamo a raggiungerli. Negli Stati Uniti, ad esempio, c’è un ampio consenso attorno all’idea di massimizzare le probabilità di successo accademico di ognuno, aiutando quegli allievi che a scuola stentano di più. Ma come si fa? Se andiamo a vedere la letteratura scientifica, notiamo che molte delle misure adottate fin qui non hanno funzionato, anzi, in certi casi hanno addirittura peggiorato la situazione. È un esito schiacciante. Ora: io non dico che la genetica sia la soluzione, ma credo che ci possa aiutare a capire meglio lo sviluppo umano. E meglio capiamo cosa succede davvero, più aumentano le probabilità di fornire alla società informazioni utili allo sviluppo di politiche efficaci. La genetica potrebbe fornirci dati tanto rilevanti quanto il fatto di sapere se un bambino viene da un contesto povero oppure ricco. Eppure molti ricercatori in ambito sociale ritengono ancora che sia uno strumento discriminatorio, ‘eugenetico’.

Ma questo viene proprio dalla consapevolezza che in passato si sono sdoganate numerose politiche eugenetiche. Inoltre, dare la colpa al Dna ha alimentato quello che lei stessa definisce "pessimismo genetico": l’idea che è inutile affannarsi dietro a grandi politiche scolastiche e sociali, perché se sei ‘nato storto’ l’intero sforzo è sisifeo. Non trova dunque che serva anzitutto un cambio radicale di paradigma, se vogliamo "usare le informazioni genetiche per aumentare le opportunità e non per classificare la gente" o addirittura tagliarla fuori?

È importante ricordare che i punti di vista razzisti o classisti, basati sull’idea di una gerarchia naturale, non sono nati per colpa della genetica. Non è che prima vivessimo in una società utopicamente egualitaria e poi, all’improvviso, sia arrivata qualche scoperta sui geni e la gente abbia esclamato "Ops! Vorrà dire che d’ora in poi dobbiamo essere razzisti…". Non funziona così: prima viene l’ideologia, poi la ricerca di una sua giustificazione. Lo scopo del mio libro è suggerire che ora, invece, potremmo e dovremmo ammettere l’importanza dei geni – un’importanza che possiamo intuire anche solo guardando alle molte differenze tra le persone che ci circondano – e parlare più apertamente delle loro implicazioni sociali. Dopotutto, evitare di farlo per decenni non ci ha portato molto avanti nella lotta contro le discriminazioni. La genetica può dunque rafforzare l’impegno per una società più egualitaria, invece di indebolirlo. E poi, se evitiamo di affrontare il tema, molte persone continueranno a sentirne parlare solo attraverso l’interpretazione distorta che ne danno certi forum e siti d’estrema destra, paranazisti.

È piuttosto paradossale il fatto che i "pessimisti ereditari" siano spesso gli stessi che ciarlano con grande trasporto di meritocrazia, come se una vittoria alla lotteria genetica implicasse anche una superiorità morale.

In effetti, quando un grande sondaggio condotto in una sessantina di Paesi ha chiesto alle persone "perché i ricchi sono ricchi?" e "siete a favore di un’azione del governo volta a ridurre le disuguaglianze di reddito?", chi si è detto più sfavorevole è stato chi pensa che si diventi ricchi anzitutto perché si corrono dei rischi, si lavora duro e così via. L’ammissione che certi fattori genetici – proprio come altre variabili esterne e familiari – influisca sulle probabilità di arricchirsi aiuta dunque a cambiare la nostra prospettiva sul da farsi. La ‘fortuna genetica’ è un concetto che rimette in discussione certe visioni moralistiche del merito, un po’ come succede quando riconosciamo il ruolo di determinati fattori sociali, come le condizioni in cui si vive e il mercato del lavoro: un aspetto, quest’ultimo, studiato dall’economista Robert Frank in ‘Fortuna e successo’, un libro che ritengo ‘gemello’ del mio. Entrambi gli approcci ci aiutano a contestare l’errata convinzione di esserci sempre meritati tutto quel che abbiamo ottenuto, una barriera esiziale all’impegno collettivo contro le disuguaglianze.

IL LIBRO

Un dibattito vivace

‘The Genetic Lottery. Why Dna Matters for Social Equality’ è stato pubblicato da Princeton University Press nel 2021 – entrando subito tra i ‘Libri dell’anno’ dell’Economist – ed è appena stato ristampato in edizione tascabile. La traduzione italiana – ‘La lotteria dei geni. Come il Dna influenza la nostra vita e la società’ – è curata dall’editore Utet. Il saggio ha sollecitato un dibattito insolitamente vivace per questo tipo di pubblicazioni ‘metascientifiche’. Il genetista dell’Università di Cambridge Aylwyn Scally scrive che "fornisce basi più solide circa le istanze sociali e il ruolo della genetica rispetto a pubblicazioni precedenti", mentre il New Yorker lo descrive come "un atto straordinariamente ambizioso d’intraprendenza morale". Al contrario, la New York Review of Books contesta le tesi di Harden, obiettando che l’autrice "nasconde la sua visione radicalmente soggettiva dell’essenzialismo biologico come se si trattasse di un fatto oggettivo".

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