Pensiero

Foster Wallace, basta il nome

Genio o folle dissimulatore: lo scrittore suicida 10 anni fa continua a dividere. L'intrattenimento senza fine di 'Infinite Jest'

12 settembre 2018
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Genio o funambolo, osservatore lucido o dissimulatore folle, lo scrittore statunitense ancora divide i lettori. Siamo tornati a immergerci nel suo racconto allucinato e straniante, quanto di più dirompente la letteratura ci ha regalato negli ultimi decenni.

David Foster Wallace. Basta il suo nome – ancor prima di finire a parlare di critiche, recensioni o giudizi – per dividere. Ed è da qui che, per forza, bisogna partire oggi, dieci anni dopo il suo suicidio, per provare a capirci qualcosa. Genio per alcuni, sopravvalutato per altri. Feroce pittore di quadri in prosa sul presente e sull’umanità per alcuni, prolisso saccente secondo altri. Il mio legame con Foster Wallace è vecchio e nuovo, fatto di rimandi continui, novità, sfinimenti, resistenza. Vecchio (si fa per dire) perché con i suoi racconti ho attraversato l’adolescenza. Nuovo perché in un’estate dove, usando un eufemismo, è stato tutto un completo e inenarrabile disastro, capita di dirsi: “Quando, se non ora, affrontare sul serio ‘Infinite Jest’?”. Così è stato. Una lotta di poco più di un mese, contro un monolite di 1’179 pagine più altre 100 di note ed errata corrige. Un chilo e quattrocento grammi sempre nello zaino, sulle gambe in treno, sul tavolo della sala. Ecco, sì. ‘Infinite Jest’ non si può leggere a letto, o in poltrona. E non per il peso che su petto o stomaco porterebbe a discrete complicazioni respiratorie. Ma perché se Foster Wallace non è stato semplicemente uno scrittore, ‘Infinite Jest’ non è semplicemente un libro. Senza segnalibri, senza post-it colorati per le parti principali e da riprendere, senza foglietto a parte dove si marcano personaggi, dialoghi, pagine, rimandi alle note e vicende non si va avanti. La lettura diventa una battaglia, contro te stesso e contro di lui. Ti maledici, a volte, di aver considerato la sciagurata idea di passare così ogni momento libero durante circa quaranta giorni. A volte hai anche dei piccoli crolli. Che ti fanno chiudere il libro e scappare, uscire, respirare. Solo che un libro che parla di dipendenze (anzi, interdipendenze), assuefazione e incapacità di resistere alla tentazione stessa della dipendenza, a cosa può portare se non al sentirne la mancanza un attimo dopo e riprendere a leggere?

L’‘Intrattenimento’ senza fine

Un vomito di parole, sequenze totalmente illogiche ma che di logica ne hanno da vendere, descrizioni così piene da sembrare artificio quando, a ben pensarci, non sono altro che quello che ci circonda. Perché in fondo, in ‘Infinite Jest’ come in qualsiasi cosa abbia scritto, pure una lista della spesa immagino, Foster Wallace non ha fatto altro che descrivere situazioni, persone, fatti. E chi legge, per i racconti degli alcolisti anonimi di Boston, per le vicende di Hal Incandenza, per suo padre James O. – pardon, Lui-In-Persona – che si suicida infilando la testa nel vetro bucato di un forno a microonde e premendo “power”, per la bellissima Joelle Van Dyne sviluppa una dipendenza fortissima. Che è la stessa dipendenza per le ‘Sostanze’, per le droghe, per la pubblicità, per la televisione e per qualunque cosa annichilisca, che hanno tutti i personaggi del monolite. Protagonista della vicenda non è uno di loro, ma una ‘cartuccia’. Il cosiddetto “Intrattenimento”, un film che ipnotizza e regala soavemente il bello al punto da non avvertire più qualsiasi altro bisogno che continuare a guardarlo, appunto, all’infinito. Fino a morire. Le altre dipendenze spariscono, d’incanto. Perché il film è la dipendenza suprema. “Che cos’è una vita senza una dose di qualcosa, una dipendenza?” si chiedono i Baustelle in ‘Betty’. Irreale, dopo essere usciti (vivi) da ‘Infinite Jest’. Perché il vero, grande talento di uno dei più grandi geni visionari degli ultimi decenni, è esser riuscito a rendere dipendenti da un libro sulla dipendenza. Dall’intersecare storie e vicende che non c’entrano (apparentemente?) niente l’una con l’altra – una partita di tennis, tutto quello che succede a Don Gately, l’“Intrattenimento’’ cui i Servizi danno la caccia che coinvolge tutti e nessuno, o una gara di eschaton – culminando in un finale che, come forse è giusto che sia dopo 1’179 pagine, nemmeno è un finale. Il messaggio di ‘Infinite Jest’, concretamente, è che siamo talmente alienati dal dover avere dipendenze? Che sono le dipendenze a tenerci vivi? O che ci portano alla morte, come chiunque veda la pellicola? Ogni lettore avrà la sua risposta. Ma sapere che ci sono – che la realtà è spesso peggiore di quanto benevoli e troppo ottimisti occhi dicano, che le cose possono semplicemente andare male, che una persona ha molte più sfaccettature di quanto ragione e sentimenti ammettano – aiuta a capire il tutto. Quando per tutto si intende la vita. E l’eredità di David Foster Wallace dieci anni dopo il suo essersi impiccato a una trave è forse questa: il guardare il mondo nella sua interezza, con il giusto disincanto, senza aver paura di dire che certe volte è uno schifo. E che non se ne esce soli. Mai.

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