‘Cowboy Carter’ è l’album dell’anno anche nella categoria ‘Country’, una rivincita per Queen Bey. Premiati anche Beatles e Rolling Stones
Se Beyoncé non avesse vinto il suo primo Grammy per l’album dell’anno – ‘Cowboy Carter’, riconoscimento sfiorato per ben quattro volte – la notizia del giorno sarebbe che Taylor Swift non ne ha vinto nemmeno uno. Beyoncé Giselle Knowles-Carter, detta anche Queen Bey, ha rotto una specie d’incantesimo, di quelli alla Di Caprio, eterno candidato all’Oscar fino a ‘The Revenant’, o alla Cutugno, eterno secondo (Sanremo s’avvicina e già si lavora l’inconscio). Un incantesimo spezzato domenica notte (da noi) dal giudizio della National Academy of Recording Arts and Sciences, più brevemente detta ‘Recording Academy’, che aveva deciso di confermare la cerimonia di consegna dei Grammy Awards nella casa dei Lakers, la Crypto.com Arena di Los Angeles, città segnata dai noti e terribili incendi.
Ancor prima che la messe di grammofonini (l’equivalente dell’omino d’oro degli Oscar) fosse distribuita, l’Academy della musica aveva stabilito le linee guida dell’evento: un omaggio alla città con raccolta fondi (dati ufficiali: 7 da destinarsi alle vittime dei roghi), e così l’arena ha applaudito l’opening act dei Dawes di Taylor e Griffin Goldsmith, senza più una casa perché divorata dalle fiamme, con Sheryl Crow, Brad Pasley e John Legend di supporto nell’inno alla città scritto da Randy Newman nel 1983, ‘I Love L.A.’. Poco prima, nell’aprire le danze, il presentatore Trevor Noah aveva detto la sua sulla città degli angeli: “Dicono che nei tempi più bui l’umanità dia il meglio di sé, e la gente di Los Angeles è l’esempio perfetto. (...) È il posto in cui Billie Eilish e il fratello Finneas hanno trasformato una camera da letto in uno studio da Grammy, è la città in cui Snoop Dogg ha mixato ‘Gin and Juice’ e l’hip hop non è stato più lo stesso…”.
Alla faccia dei Country Music Awards
Taylor Swift in rosso Vivienne Westwood, Lady Gaga vestita da Valentino e Olivia Rodrigo da Versace. Ma il red carpet dei Grammy 2025 si farà ricordare per il nude look di Bianca Censori moglie di Kayne West, non nuova alle provocazioni così come il coniuge (che a Venezia, da un taxi acqueo, mostrò le bianche terga). Nudità a parte, Beyoncé ha vinto il Grammy anche per il miglior duetto, quello con Miley Cyrus in ‘II Most Wanted’, ma soprattutto quello per il miglior album country, che è sempre ‘Cowboy Carter’. “Alla faccia dei Country Music Awards (Cma)”, avrà esclamato papà Mathew Knowles, già manager della figlia, già produttore delle Destiny’s Child (con dentro la figlia), uno che lo scorso anno diede dei razzisti a quelli della Country Music Association una volta saputo che Beyoncé era stata totalmente ignorata aveva detto: “Ci sono più bianchi in America, e non votano in base all’abilità di chi compete”.
Knowles non parlava a vanvera: di musicisti afroamericani è pieno il jazz ma non il country, e ai Cma bisogna tornare indietro di soli due anni per trovare la prima persona afroamericana a vincere il premio per la canzone dell’anno, Tracy Chapman, che nel 1988 scrisse la bella ‘Fast Car’ e nel 2023 il bianco Luke Combs riportò in vetta. Nemmeno per trovare il primo non bianco a vincere un Country Music Award bisogna andare lontanissimo: era il 2009 quando Darius Ruker, ex Hootie & the Blowfish, veniva insignito del New Artist Award. Il country nel frattempo ha sfornato Shaboozey (quasi Grammy quest’anno), Willie Jones o The War and Treaty, marito e moglie, gente che tutto ha tranne che i tratti somatici da suprematisti. Diamo allora alla Country Music Association un’attenuante, e cioè il non aver saputo o potuto collocare ‘Cowboy Carter’ in nessuna delle sottosezioni del country. E comunque non è che ‘Cowboy Carter’ sia stato un plebiscito di ‘wow’.
Detto di Taylor Swift, trionfatrice della scorsa edizione, rimasta a bocca asciutta, meglio è andata al rapper Kendrick Lamar, che ha vinto per il miglior disco e la miglior canzone, il miglior brano rap, la migliore performance rap e il miglior video. Premio nel premio, alla città e ai telespettatori del pianeta, Stevie Wonder con Herbie Hancock a ricordare il Quincy Jones produttore di ‘We Are the World’ insieme a un coro di studenti di due scuole che il fuoco si è prese con sé. A proposito di Quincy Jones, ‘The Greatest Night in Pop’, il documentario delle session di quella canzone, ha ceduto il posto ad ‘American Symphony’, Grammy al Miglior film musicale. Lady Gaga e Bruno Mars, Grammy per il miglior duetto (‘Die With A Smile’) hanno cantato ‘California Dreamin‘’ dei The Mamas & the Papas. La cantante ha inneggiato alla comunità queer e la collega Shakira, Grammy per il miglior album latin (‘Las mujeres ya no lloran’) ha dedicato il premio “a tutti i fratelli e sorelle immigrati in questo Paese”, stavolta non alla faccia del Country ma a quella di Donald Trump.
Detto anche del Grammy al fu Jimmy Carter per ‘Last Sundays in Plains’, audioraccolta di discorsi domenicali alla sua comunità religiosa in Georgia, uno sguardo al di fuori del pop. Nella categoria dei migliori arrangiamenti Jacob Collier ha vinto il suo settimo Grammy arrangiando a modo suo ‘Bridge Over Troubled Water’ di Simon & Garfunkel su ‘Djesse Vol. 4’, classico dell’American Songbook qui in versione lievemente masturbatoria per eccesso di gorgheggi, sostituzioni, acuti e svisate, illuminata da John Legend più che da Tory Kelly. Meglio l’Henry Mancini di ‘Baby Elephant Walk’ nella versione ‘ubriaca’ e bellissima di Michael League degli Snarky Puppy, uno dei capitoli di ‘Henry Mancini – The 100th Sessions’, disco uscito per i cent’anni del grande compositore con dentro Pat Metheny, Quincy Jones, Bublé che canta ‘Moon River’, Stevie Wonder che accompagna Audrey Hepburn tornata digitalmente dall’aldilà e Lizzo al flauto sulla Pantera Rosa.
Meglio ancora la ‘Rhapsody in Blue(Grass)’ del banjoista Béla Fleck sull’album ‘Rhapsody in Blue’, dove la rapsodia diventa anche ‘in Blue(s)’, ma sempre con il geniale glissato, qui adattato in scala ascendente. Fleck, che ha plasmato il banjo intorno ai ritmi del mondo ma che i ritmi del mondo li ha pure piegati al suo strumento, ha vinto quest’anno il suo 18esimo Grammy per ‘Remembrance’, miglior album jazz strumentale, documento finale della collaborazione con il grande Chick Corea (1941-2021).
‘Now and Then’ dei Beatles è la migliore performance rock, da condividere con l’Intelligenza artificiale che ha resuscitato John Lennon da una vecchia audiocassetta e ricostituito i Fab Four. Il figlio di John, Sean Lennon, ha ritirato anche il Grammy per ‘Mind Games’, album del babbo uscito nel 1973, primo classificato nella categoria dei cofanetti in edizione limitata (il Grammy li premia, così come il miglior packaging e le migliori note interne). Sean ha detto: “I Beatles hanno fatto qualcosa di incredibile, per quel che mi riguarda sono gli uomini migliori di sempre”. E poi: “Fateli ascoltare ai bambini, è importante che il mondo non li dimentichi. Abbiamo bisogno di peace & love”. Poi un messaggio per i più giovani: “Non fate mai una battle rap con Kendrick Lamar”.
Chiudiamo con il quarto Grammy dei Rolling Stones premiati per ‘Hackney Diamonds’, miglior album rock: “È fantastico. Ho parlato ieri con Mick (Jagger, ndr) che ringrazia, anche gli altri ringraziano”. Ritira il premio il 34enne produttore del disco Andrew Watt, che da ragazzino è cresciuto con i riff di chitarra di Keith Richards (Ry Cooder sostiene che Keith glieli abbia copiati, ma non ditelo a Watt).