Locarno 74

La vetta e il baratro nell'Atlas di Niccolò Castelli

Il regista ticinese convince con il dramma che prende ispirazione dalla tragedia di Marrakech del 2011. “Volevamo parlare delle emozioni”

5 agosto 2021
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Amore, amicizia, famiglia, lutto, rinascita. Ma anche diversità e integrazione, preconcetti e politica. Può dirsi un lavoro di maturità, quello svolto da Niccolò Castelli con “Atlas”, presentato come film d’apertura a Soletta e riproposto per Panorama Suisse al Fevi (quanto all’uscita in sala, c’è ancora da aspettare).

Raccontare elementi universali rifacendosi a una storia privata intrisa di dolore, e farlo passando dallo stretto imbuto della territorialità ticinese, funziona solo a determinate condizioni: sapere cosa si vuol dire e come farlo – e in questo senso va sottolineato il lavoro di Stefano Pasetto, sceneggiatore con lo stesso regista – e avere un cast all’altezza. Dal secondo emerge la protagonista Matilda De Angelis, 25enne bolognese, notevole nella sua esplorazione delle conseguenze di una tragedia inimmaginabile: quella del 28 aprile 2011, quando al Caffè Argana di Marrakech esplode una bomba. Delle 17 persone che rimangono uccise, tre sono ticinesi: Corrado Mondada e André Da Silva Costa muoiono sul colpo, Cristina Caccia una settimana più tardi. Morena Pedruzzi, di Lavorgo, sopravvive. De Angelis, che nel film ne interpreta l’alter ego Allegra, dà i caratteri alla profonda sofferenza e alla faticosa ricerca di una risalita. Interessante la metafora dell’arrampicata, passione condivisa dai 4 amici tanto da portarli in nord Africa per scalare una vetta dell’Alto Atlante, l’immaginario Atlas. 

«Quella che abbiamo raccontato non è una storia vera – ha detto Castelli – ma ne trae ispirazione. L’intenzione non era fare un film di cronaca che raccontasse quel terribile episodio di 10 anni fa. Volevamo piuttosto parlare delle emozioni». Per farlo era inevitabile stabilire un contatto, immergersi in quella terribile realtà determinata dal trauma vissuto non da una singola persona, ma da 4 famiglie e da quella stessa comunità di cui Castelli fa parte e alla quale in qualche modo deve rendere conto. «Ho subito messo in chiaro che non volevo mancare di rispetto a un dolore che non potevo conoscere. Morena, la sua famiglia e tante altre persone ci hanno dimostrato grande apertura e molta generosità nel condividere i pensieri. Lo scambio, proseguito anche durante le riprese, mi onora. A tutti va la mia riconoscenza», ha considerato il regista. A lui va la nostra per il coraggio e la sensibilità, la misura di un viaggio pericolante sulla cresta del baratro.

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