Culture

Un chiodo fisso. La scrittura di Fleur Jaeggy

Tra anima e materia, una analisi dell’universo narrativo della scrittrice vincitrice del Gran premio svizzero di letteratura 2025

(Simon Schmid, NB)
13 febbraio 2025
|

La potenza della scrittura di Fleur Jaeggy è rivelata da un fatto preciso: non si riesce a parlarne con facilità. Continua ad agire dentro il lettore e ciò che, al limite, un lettore può fare è osservare il lavorìo che dentro di lui innesca, provando a raccontarlo. La scrittura di Jaeggy accade dentro chi legge. A volte, come nel mio caso, il lavorìo procede per immagini, stringendosi intorno ad alcuni oggetti. Uno per tutti: un chiodo. “Sono passati molti anni e questa mattina ho un desiderio improvviso: vorrei le ceneri di mio padre. Dopo la cremazione, mi mandarono un piccolo oggetto che aveva resistito al fuoco. Un chiodo. Lo restituirono intatto. Mi domandai allora se veramente l’avevano lasciato nella tasca del vestito”. Così incomincia uno dei suoi libri, che ha per titolo il nome di una nave: ‘Proleterka’ (2001). La meta ultima della Proleterka è Delfi. In viaggio ci sono un padre e una figlia, insieme ai rappresentanti di una società in declino e a tutti i loro ricordi. Scopriremo immediatamente che è la figlia ad aver messo il chiodo nella tasca del padre morto, ma continueremo a domandarci perché lo abbia fatto.

Quando ho letto per la prima volta il libro, ricordo di aver pensato alla Pizia morente di Dürrenmatt, magra come un chiodo, lunga e secca, lang und dürr come le sue predecessore e come quelle i appuntite che aprono il racconto nella traduzione italiana: “stizzita” è la prima parola. La Pizia è stizzita per l’idiozia della gente e la scemenza dei suoi stessi oracoli. Anche la figlia nel romanzo di Jaeggy è stizzita, il suo tono è stizzito, anzitutto a causa del padre, e soprattutto di una certa loro “ossessione, di padre e figlia. Quella di non essere tristi, di nascondere la tristezza che ci ha segnati senza motivo”. La tristezza, nella scrittura di Jaeggy, è presenza costante, a tratti selvaggia. Restia a ogni tentativo di addomesticamento, cade nella mente; è sorella vitale del niente: “Non penso a niente. Il niente è materia di pensieri. [...] Come dagli artigli di un predatore in volo, i pensieri cadono nella nostra mente quando siamo convinti di non pensare”. La tristezza, proprio come il niente, non è parente del vuoto e continua a pungolarci. Anche quando appare sopita, riaffiora, così come quella domanda: perché la figlia ha messo un chiodo nel vestito del padre morto? Forse proprio perché è stizzita. Dentro la parola “stizza” c’è il “tizzo”. Il chiodo è un oggetto che brucia a fatica, un tizzone che fonde lentamente; ha assistito alla cremazione del padre, senza riuscire a liquefarsi. “Mentre Johannes brucia, gli fa compagnia. Un dono di sua figlia. Non si fanno regali ai morti. Quando uscii dalla cella, sapevo di aver lasciato un testimone del fuoco”. Il viaggio sulla Proleterka è un viaggio tra gli oggetti di una famiglia. Un viaggio attraverso i ritratti, come quelli appesi alle pareti di case ormai in rovina dove “tutte le stanze sanno”. Ci si aspetta che qualche avo esca dalla cornice e prenda la parola tra gli oggetti derisi dalla polvere: “Oggetti e predecessori, nomi non più pronunciati, una genealogia di immagini era contro di me”. Oggetti sensibili, ai quali dare del tu, come al pianoforte, lo Steinway che ha conosciuto le mani della madre e che rifiuta, diffidente e ostile, quelle della figlia. “Tu non vuoi ancora che io tocchi i tuoi tasti”. Molti degli oggetti che compaiono nei libri di Jaeggy sono testimoni del fuoco, resistono alla dissoluzione, pur essendo a loro volta destinati all’oblio. E l’amore verso di loro, “verso le cose destinate a svanire”, è come “l’amore che si ha per i simulacri. Per ciò che non è visibile, ma ha la luce”. Gli oggetti nella scrittura di Jaeggy hanno anima propria. Come scrive in una prosa dedicata al poeta Iosif Brodskij, dal titolo ‘Negde’: “Gli oggetti hanno un senso di appartenenza, come in un patto”. Non vogliono separarsi da chi muore. “Non vogliono essere spostati e, se qualcuno lo fa, tornano ai loro posti”.

In una delle poche interviste, rilasciata a Dylan Byron e uscita su ‘The New Yorker’ nell’ottobre del 2021 con il titolo ‘Fleur Jaeggy Thinks Nothing of Herself’, la scrittrice parla della sua macchina da scrivere, come di un oggetto dotato d’anima e di un nome: Hermes scrive i libri di Fleur. Questa e poche altre informazioni si hanno su di lei. Credo che scriva il suo nome in minuscolo, avendo trovato in un mercatino dell’usato una copia con una dedica e una firma spigolosa, fleur. Nome comune singolare. Fleur è un oggetto, fisico. Ce lo ha ricordato il filosofo Remo Bodei, nel suo libro ‘La vita delle cose’: in latino obicere, da cui la parola “oggetto” deriva, significa “gettare contro, porre innanzi”. Come il suo nome, così la sua scrittura – visionaria e, al tempo stesso, di una lucidità disarmante, che prende le forme di un paesaggio alpino ghiacciato o quelle squadrate dei palazzi svizzeri in cemento armato – si pone dinnanzi alla vista e al pensiero. E lì rimane, come un chiodo fisso, che lentamente fonde.