Intervista alla storica Laura Schettini, ospite in Ticino per presentare i due libri ‘L’ideologia gender è pericolosa’ e ‘L’autodifesa delle donne’
Sono fili a lungo rimasti slegati da una trama dominante quelli che Laura Schettini – ricercatrice in storia contemporanea e professoressa di storia delle donne e di genere all’Università di Padova – ha tentato di ritessere nei due libri che presenterà in Ticino: “L’ideologia gender è pericolosa”, giovedì a Bellinzona, e “L’autodifesa delle donne. Pratiche, diritto, immaginari nella storia”, venerdì a Lugano (dettagli in fondo alla pagina). L’abbiamo intervistata.
Partiamo dalla prima pubblicazione, “L’ideologia gender è pericolosa”. Negli ultimi anni – anche se come vedremo non si tratta di una vera e propria novità – nell’agone politico si dibatte con una certa ricorrenza e con toni spesso accesi attorno a quella che secondo alcuni ambienti conservatori sarebbe una minaccia per la società, ordita dalla comunità Lgbtq+ e dalle femministe che, portando nel dibattito pubblico temi relativi a orientamenti sessuali e identità di genere non conformi, starebbero confondendo le menti dei giovani e mettendo a repentaglio il supposto ordine naturale delle cose fondato su una netta distinzione tra maschi e femmine. Innanzitutto, a che rappresentazioni mentali rimanda la formulazione “ideologia gender”?
Si tratta di un dispositivo narrativo impiegato nel contesto della polemica politica. Il termine “ideologia”, dopo il fallimento di quelle grandi del Novecento, ha assunto un’accezione negativa ed è usato per accusare qualcuno di aver scelto un sistema di valori a priori e di essere disposto a tutto per perseguirlo, di essere fanatico, accecato, lontano dalla realtà. “Gender” invece è il corrispettivo anglofono di “genere”, impiegato in questa declinazione presumibilmente per rimandare all’idea di un rischio che viene da fuori, che non è frutto della nostra cultura e della nostra storia, ma importato da quel mondo consumistico e particolarmente spregiudicato che sarebbero gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.
Dove affonda le radici questo dispositivo narrativo?
Da una parte rimanda a quella campagna antifemminista e contro il variegato mondo delle persone omosessuali, transessuali, intersessuali – ma pure di chiunque non rientri nel modello standard di relazioni e rapporti anche genitoriali riconducibili alla famiglia eterosessuale e patriarcale – che è molto più antica dell’invenzione della parola gender o genere. La si trova infatti molto presente e viva fin dalla costruzione delle nazioni moderne. Invece la terminologia anti-gender propriamente detta, che prende di mira gli studi di genere i quali racchiuderebbero in sé un complotto volto a distruggere la famiglia tradizionale, ha origine a metà degli anni Novanta, a ridosso della quarta Conferenza mondiale delle donne svoltasi a Pechino nel 1995. In quel momento viene lanciato dagli ambienti del Vaticano l’allarme per le “femministe del gender”, accusate di mettere in discussione la “naturale” missione materna e domestica femminile. Gli ambienti conservatori vedevano male il potere che le femministe stavano conquistando in questi contesti internazionali, dove avevano messo in agenda i diritti riproduttivi delle donne e iniziato a denunciare il carattere sistemico della violenza domestica, di fatto muovendo una grossa critica alla famiglia tradizionale.
Per capire le ragioni della veemenza dei discorsi attorno a questi temi lei ritiene cruciale evidenziare da un lato che la posizione occupata da uomini e donne nella società, come sostenuto dalle femministe del genere, non discende dal fattore biologico dei corpi, ma si tratta di un fatto politico, esito di un rapporto di forza. E dall’altro come già nel passato l’attraversamento dei confini tra maschile e femminile, anche quando questo significava semplicemente l’occupazione da parte delle donne di spazi o ambiti dominati dagli uomini, era considerato un sovvertimento dell’ordine naturale.
Esatto, penso sia proprio qui che si annida quell’ostilità che esiste oggi – come in passato e forse più – contro quelli che nel tempo sono stati chiamati “travestiti”, “transessuali”, “transgender”, vale a dire tutte quelle figure che volenti o nolenti – penso anche agli intersessuali che nascono con caratteristiche sessuali miste – attraversano il confine tra maschile e femminile. Storicamente c’è un legame fortissimo già dalla fine dell’Ottocento tra la differenza dei ruoli che donne e uomini occupano nella società e il tentativo di ricondurli a qualcosa di fondato sulla biologia dei corpi, quindi sulla natura. Prima ancora questa separazione veniva fatta discendere da un ordine divino. Quello per cui donne e uomini sarebbero “portati” – ovvero la sfera domestica, di cura, e quindi privata per le prime; il potere politico, il lavoro retribuito, lo spazio pubblico per i secondi – si è voluto giustificare con i corpi, quando invece è una questione che potremmo definire politica, vale a dire risultato di dinamiche di potere. Per questo motivo chi impersonificava l’attraversamento dei confini tra generi, di fatto dimostrando che quel confine si poteva attraversare, ha progressivamente rappresentato una minaccia, il simbolo della precarietà di quell’ordine che si voleva naturale. Non a caso le donne emancipate di inizio Novecento giocavano con questa ossessione ad esempio indossando la cravatta o il monocolo o fumando il sigaro. Si atteggiavano a maschi dimostrando come anche l’arte del travestitismo sia qualcosa con forte senso politico.
Come va allora interpretata l’asserzione "è pericolosa” nel titolo del suo libro?
Direi come una sorta di auspicio. Di ideologie gender ce ne sono tante, se quella contro cui puntano il dito alcuni ambienti come il Vaticano e le destre populiste – ossia quella che invoca l’autodeterminazione delle donne, la libertà sessuale, la pluralità delle famiglie, dei corpi e delle soggettività – è ritenuta pericolosa, allora ben venga che lo sia, perché significa che si sta affermando nella società. Questo è positivo perché permette di portare avanti una riflessione soprattutto sul fatto che il legame tra corpi e ruolo sociale è qualcosa di negoziabile, che va discusso e interrogato continuamente.
Passiamo a “L’autodifesa delle donne. Pratiche, diritto, immaginari nella storia”. Attraverso 13 saggi e 15 autrici, con un approccio multidisciplinare, la pubblicazione di cui lei è co-curatrice assieme alla collega Simona Feci affronta il tema della violenza sulle donne da una prospettiva inusuale, che va oltre la rappresentazione femminile come soggetto inerme. Qual è il fil rouge che attraversa i contributi e quali sono i principali nodi?
Si tratta di un libro che mette a fuoco una pluralità di esperienze di autodifesa femminili e femministe, aprendo un cantiere di ricerca su come queste si siano sviluppate nel tempo. Sono tre i piani emersi da questo censimento. Il primo è quello di una dimensione fisica dell’autodifesa. Ci sono dei contributi che parlano di donne che hanno esercitato la forza, talvolta anche imbracciando le armi, per difendersi da aggressioni, violenze e maltrattamenti maschili, molto spesso a opera di mariti, fidanzati o partner. In secondo luogo ci sono le forme di autodifesa che hanno agito più sulla sottrazione, sulla fuga, sull’allontanamento dalla dinamica della quotidianità della violenza. Già nel Settecento questa si dimostra una delle strade più battute. Poi c’è un terzo piano che è l’autodifesa praticata a partire da una dimensione simbolica, culturale e anche artistica, vale a dire tutte quelle azioni che in qualche modo operano a livello dell’immaginario e che hanno provato nel tempo a rappresentare la forza e la riappropriazione dello spazio da parte della donna. Un esempio si trova nel saggio di Lorenza Moretti che racconta le manifestazioni notturne “Reclaim the night” (“Riprendiamoci la notte”) che si diffondono da metà degli anni Settanta in gran parte del mondo dove esistono movimenti femministi. Sono manifestazioni che intervengono chiaramente sul piano simbolico dell’interdizione della notte alle donne ma che al contempo producono anche un’invasione fisica dello spazio urbano durante il buio, costruendo un diverso modello di luogo sicuro per le donne.
Emerge anche come le donne siano state disarmate, e come la reazione alla violenza sia stata ridotta a una dimensione di irrazionalità, anomalia, squilibrio anziché alla necessità di autodifendersi. Succede ancora oggi?
Sì, questo è un tema fondamentale che i centri antiviolenza stanno portando sotto i riflettori da qualche tempo. Molto spesso ancora oggi nei tribunali, nei procedimenti soprattutto civili, nelle cause di separazione, il dispositivo della follia e dell’irrazionalità femminile è molto forte. Quello che abbiamo ricostruito in una prospettiva storica è che mentre alle donne è stata consegnata una titolarità nella sfera della domesticità e della passività, parallelamente si è cucito loro addosso anche il modello femminile di soggetto naturalmente fragile, bisognoso di protezione e soprattutto incapace di difendersi. Anche qui ritorna il discorso sulla natura per cui le donne sarebbero il sesso debole, come ancora oggi in molti vocabolari vengono definite. Convincere le donne di questo vuol dire inibire la loro reazione, la resistenza, il contrattacco alla violenza fin dal piano dell’immaginario. Inoltre, nel costruire la natura femminile come intrinsecamente fragile e non violenta, va da sé che qualsiasi fuoriuscita delle donne da questo tracciato – ad esempio la rabbia o la forza contro la violenza – viene concettualizzata come un’aberrazione o una patologia. In questo ambito ci sono terreni che andrebbero solcati più approfonditamente dal punto di vista della ricerca come la storia degli internamenti manicomiali femminili. Pensiamo a celebri figure quali Alda Merini la cui richiesta di internamento guarda caso veniva dal marito.
Con quale obiettivo, valorizzando queste storie oggetto di un’opera di depotenziamento, avete deciso di recuperare le esperienze femminili e femministe di autodifesa?
Si potrebbe dire che quello che stiamo provando a fare è costruire un repertorio di pratiche, un’expertise, forse anche un manuale di autodifesa, raccontando alle giovani generazioni che le donne hanno una grande quantità di forza e che hanno messo a punto molteplici strategie di autodifesa nel corso della storia le quali non solo vanno riconosciute ma possono anche essere usate come modelli. Si tratta di un tentativo forse anche di indicare quali sono le strade più percorribili, più utili. A noi è sembrato – e su questo abbiamo chiuso l’introduzione – che queste storie del passato dimostrano soprattutto che quando l’autodifesa si fa collettiva e cosciente, quando si costruiscono reti e sponde l’una con l’altra, si ottengono i risultati migliori.
“L’ideologia gender è pericolosa” (Laterza, 2023) sarà presentato giovedì 30 gennaio alla Biblioteca cantonale di Bellinzona alle 18.30. Oltre all’autrice interverranno Rosario Talarico, storico e membro dell’Associazione ticinese insegnanti di storia (Atis); Federico De Angelis, coordinatore dell’Associazione Imbarco Immediato; e Stefano Vassere, direttore delle Biblioteche cantonali. Prima della conferenza, dalle 17 alle 18.15, si terrà un seminario gratuito sul senso e l’uso pratico del linguaggio ampio e della comunicazione paritaria, a cura di Elena Nuzzo ed Elisabeth Sassi per l’Associazione Puntozero.
“L’autodifesa delle donne. Pratiche, diritto, immaginari nella storia” (Viella, 2024) verrà presentato, sempre alla presenza dell’autrice, il giorno successivo, venerdì 31 gennaio, nella Sala E del Palazzo dei Congressi di Lugano alle 18.30. Questo incontro è organizzato dal Collettivo Io l’8 ogni giorno.