laR+ La recensione

Il dodicenne Gigio nell’estate del Settantadue

Un’attestazione e una legittimazione del suo stesso senso di esistere, è questo il tratto più profondo di ‘Settembre nero’ di Sandro Veronesi

18 gennaio 2025
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Ben venga ogni tanto – specie nell’ipertrofico panorama della narrativa italiana contemporanea – qualche romanzo che sappia anche riflettere sulle proprie possibilità estetiche e conoscitive; che si affermi cioè come un’attestazione e una legittimazione del suo stesso senso di esistere. Mi pare questo il tratto più profondo dell’ultimo libro di Sandro Veronesi, che in superficie si presenta tuttavia modellato – nonostante l’ambientazione un po’ rétro – sul romanzo di formazione degli anni Duemila. Gli ingredienti ci sono tutti: un protagonista adolescente (il dodicenne Gigio Bellandi) che scopre la sessualità e l’amore (il corpo che cambia, ma non proprio come quello dei coetanei, le prime riviste pornografiche scovate dal barbiere, l’amore per Astel Raimondi, figlia degli storici vicini di ombrellone a Fiumetto, coinvolti nel finale in un giallo che non si innesca neppure); la contrazione dell’arco temporale, focalizzato sull’estate che stravolge una vita intera, con il mare a fare da correlativo oggettivo alle vicende dei personaggi (Ammaniti, Avallone, Genovesi, Sabatino, lo stesso Veronesi nel Colibrì); il Male che arriva dai genitori (dal padre, avvocato penalista appassionato di vela, la cui leggerezza farà fallire il matrimonio; dalla madre, irlandese, capelli “del colore di un’alba di maggio in Cornovaglia”, che a quell’affronto risponderà causando ai figli un trauma ancora peggiore); la fitta presenza di scene che emblematicamente segnano il passaggio all’età adulta (Gigio che in spiaggia striscia nello spazio angusto sotto il pavimento delle cabine alla ricerca di oggetti caduti sulla sabbia, trova degli occhiali da sole e sente la madre pronunciare parole di cui non la credeva capace).

A raccontare quell’estate del ’72 è un Gigio ormai sessantenne, cosa che permette a Veronesi di esibire ulteriormente l’artificio della narrazione: la giustificazione di una ricostruzione lenta e dettagliatissima, l’unica possibilità per il protagonista di capire se e quando avrebbe potuto cambiare il corso degli eventi (“Si tratta di cose che sapevo allora e che poi ho dimenticato, come accade. Ho dovuto faticare per ritrovarle e solo le esigenze dettate da un racconto giustificano questo sforzo”); le prolessi che spostano sempre un po’ più in là l’orizzonte di attesa del lettore (che però si frantuma su una chiusa troppo sbrigativa); i rispecchiamenti interni (il Settembre nero palestinese che in quell’estate fa irruzione nel villaggio israeliano alle Olimpiadi di Monaco, il settembre nero che chiude l’estate e l’infanzia di Gigio); l’architettura complessiva del libro, costruito su due parti che si chiudono con racconti laterali rispetto all’asse principale e dalla chiara funzione metanarrativa.

Affabulazione

L’impressione è che il romanzo viri dunque abbastanza in fretta verso una riflessione sul valore dell’affabulazione, e che la relazione amorosa con Astel sia per (il futuro professore di letteratura) Gigio anche un apprendistato letterario. Se già nella sua cameretta di Vinci trascorreva le ore a ripetere ossessivamente una parola fino a vederne l’immagine, solo a Fiumetto il gioco acquisirà una consapevolezza nuova. Dapprima grazie allo zio Giotti, bislacco parente (“in quel modo imperscrutabile in cui si è parenti nelle campagne”) che lo raggiunge al mare quando il padre è troppo impegnato col caso di Ermanno Lavorini, e che insinua il dubbio che il gioco possa essere fatto anche in inglese: “in realtà io non mi ero mai sentito bilingue, l’inglese per me era soltanto un nascondiglio dove potevo rifugiarmi per restare un po’ da solo con mia madre. Quella sera però la naturalezza della domanda dello zio Giotti mi fece sentire come mai non mi ero sentito. Si trattava di una consapevolezza che non avevo mai avuto”. Ma solo con Astel – nei pomeriggi trascorsi a tradurre i testi delle canzoni che la ragazza ha portato con sé dopo un soggiorno in Inghilterra – Gigio imparerà a riflettere sulle potenzialità offerte dalle varie lingue, a farle dialogare con altri sistemi di segni (la musica, il ballo, gli amatissimi e seguitissimi sport); a farsi le domande che rendono anche solo per un istante intelligibile il caos del mondo, qui icasticamente fissato – oltre che dal racconto sugli ulivi che chiude il romanzo – dallo spettacolo di Capraia, Gorgona e Palmaria che dopo vent’anni tornano visibili dalla spiaggia versiliana anche d’estate. Non è allora un caso che le pagine più nobilmente letterarie – spesso a loro volta letterariamente mediate: valgano i versi-emblema di Auden – siano quelle che traducono in segni verbali ciò che ancora non ha nome (“l’odore del sole”, con cui Gigio e la sorellina Gilda definiscono l’aria estiva saturata dalla plastica e dalla gomma delle sedie, degli scafi, dei gonfiabili) o le questioni più intrinsecamente umane (Gigio che fa l’ultimo giro in barca col padre senza sapere che sarà l’ultimo).

Veronesi opera una serie di scarti rispetto al Colibrì, che difatti si presentava anche formalmente più problematico ed eterogeneo: la riflessione sulla possibilità di evitare il Male e di resistergli appare qui vagamente fuori fuoco, come opacizzata dall’affermazione del valore del racconto; alla tirata su Miraijin, l’“Uomo nuovo”, si sostituisce la scelta di esplorare le possibilità conoscitive dei tratti autistici e aspergeriani del protagonista.

Il rischio è che tutta questa fiducia – nella pagina levigata, nella perfezione architettonica del libro, nel fatto che amare davvero permetta di amare di nuovo – finisca per anestetizzare il dolore del mondo: nel Gigio Bellandi che non vuole toccare il fondo sabbioso durante un’uscita in barca con il padre sta forse tutto il pericolo di scostare lo sguardo dagli abissi.