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‘La prigione’ di Georges Simenon, un noir anomalo

Se vittima e assassina sono già dichiarate a partire dalla quarta di copertina, cosa resta da fare? (per Adelphi, con nuova traduzione)

Georges Simenon
21 marzo 2024
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Com’è possibile in una sola vita (e senza ghost writer) scrivere oltre 400 opere (tutte notevoli) tra romanzi, racconti, memorie e raccolte di articoli? Perché di queste cifre parliamo quando ci riferiamo alla produzione di Georges Simenon, scrittore belga dall’ispirazione inesauribile e in grado, a quanto si dice, di concludere un romanzo nel giro di una settimana. Non gli sarebbero bastate due vite, altrimenti. Forse nessuno saprebbe dire con esattezza quanti siano i libri di questo autore, reso celebre anche grazie al ciclo poliziesco del Commissario Maigret, personaggio impegnato, in oltre 70 romanzi, a risolvere delitti prediligendo agli indizi concreti lo studio delle relazioni e di eventuali motivazioni.

A distanza di 35 anni dalla sua morte, Adelphi pubblica con la nuova traduzione di Serena Mambrini ‘La prigione’, uscito per Mondadori nel 1969 in una prima edizione italiana, rintracciabile ormai solo nell’usato. Il testo, apparso in Francia nel 1968, è costruito con quella scrittura veloce e agile tipica di Simenon, fatta di frasi brevi e asciutte ma capaci con poche pennellate di delineare un’atmosfera o di mettere a nudo l’intimità di un personaggio. Ci troviamo di fronte a una sorta di noir anomalo perché vittima e assassina sono già dichiarate a partire dalla quarta di copertina. Cosa resta da fare, allora, nel momento in cui quello che sembra essere un giallo non ha mistero? Cosa cercare se la caccia al colpevole si è risolta nelle prime pagine?

Come spesso accade nei romanzi dell’autore belga, la trama, di per sé, è solo la miccia, indispensabile per attivare un’indagine sull’umano, dove i personaggi sono costretti ad affrontare e a reagire (sia emotivamente sia fisicamente) a un avvenimento che rende impossibile riprendere il filo della vita precedente.

Alain Poitaud è il ricco e giovane fondatore di una delle riviste più lette in Francia. Vive a Parigi con la sua bella moglie, ha svariate avventure occasionali e non si ferma mai. Le sue giornate appaiono frenetiche e affollate, fatte di incontri, cene, nottate passate in redazione circondato da presenze effimere, pronte a dissolversi nei numerosi bicchieri di whisky consumati a partire dalla prima colazione. L’importante è evitare la solitudine, impedirsi di approfondire, lasciandosi trascinare dal flusso di un’esistenza costruita sull’apparenza e sul potere. «Suppongo di sì» è ciò che Alain risponde ogni volta che gli viene chiesto se amasse sua moglie, appena arrestata per l’omicidio della sorella, nonché ex amante di lui. Un banale crimine di gelosia? Non esattamente. Non solo. Lei confessa ma non parla. Resta agli altri cercare di capire, di indagare cosa si celi dietro alla vetrina di una famiglia apparentemente sulla cresta dell’onda. Bisogna dare parole al silenzio, abbattere la superficie ed essere pronti ad affrontare il proprio io interiore:

“Conosceva tutti, chiamava ‘cocco’ centinaia di persone. Era un uomo arrivato, che guadagnava soldi a palate. Aveva sempre saputo che non sarebbe stato uno di quelli che le prendono. (…) Con chi, in quel momento, avrebbe potuto parlare, parlare apertamente? Ma poi, aveva davvero voglia di parlare apertamente? Aveva davvero voglia di capire? Si ritrovò in Rue De Marignan, perché aveva bisogno di essere circondato da persone che dipendevano da lui. I ‘ragazzi’, li chiamava. Anche a Micetta aveva dato un soprannome, un po’ come nel Far West si marchia a fuoco il bestiame. E anche ad Adrienne. Qualcosa si era spezzato, non sapeva cosa di preciso, e cominciava ad aver paura”.

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