laR+ La recensione

‘L'uomo che voleva essere colpevole’, una danese distopia

Ristampato nel 2023 per Iperborea, Henrik Stangerup e il ‘pelagianesimo scandinavo’ portato alle estreme conseguenze

Henrik Stangerup, 1937-1998
(Keystone)
13 gennaio 2024
|

Cosa accade quando uno Stato assume come missione principale quella di assicurare il benessere fisico e mentale dei propri cittadini tentando di superare concetti come bene e male?

A prima vista l’idea potrebbe sembrare geniale ed essere accolta come un meraviglioso tentativo di creare un paradiso in terra, dove la felicità è l’unico stato d’animo ammissibile e definizioni come colpa e peccato vengono derubricate a oggetti desueti, non più applicabili alla realtà.

Henrik Stangerup, uno dei più grandi scrittori danesi del ’900, prova a portare alle estreme conseguenze quello che Anthony Burgess nella postfazione al suo libro definisce come “pelagianesimo scandinavo”: ‘L’uomo che voleva essere colpevole’ non sarebbe altro che una fotografia piuttosto realistica e implacabile della società nordica.

La ‘tessera di Mammaepapà’

Il romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1973 e ristampato nel 2023 per Iperborea con la traduzione di Anna Cambieri, dipinge un mondo distopico nel quale ritroviamo, declinati in modo assolutamente originale, alcuni elementi appartenenti a grandi classici della letteratura come ‘1984’ di George Orwell e, più in generale, alle atmosfere fantascientifiche create dal genio di Philip K. Dick.

In una Copenaghen dominata da super condomini in cemento e senza più aree verdi incontriamo Torben, uno scrittore ormai in declino, frustrato e ridotto a lavorare in un dipartimento statale impegnato a rinominare in positivo parole e termini del vocabolario danese. In questa nuova società i libri considerati antisociali vengono eliminati da biblioteche e librerie, gli editori pubblicano solo opere edificanti incentrate sul successo dell’individuo dopo la crisi, i cittadini sono seguiti con assiduità da “Assistenti” che hanno il compito ben preciso di assicurarsi il benessere di ognuno e i figli li può fare solo chi riesce a ottenere la “tessera di Mammaepapà” (un bell’eufemismo creato dai colleghi di Torben per rendere più docile il “Certificato di procreazione”).

Davanti alla scoperta di essere rimasto solo in questa sua silenziosa battaglia contro il sistema, in un accesso di rabbia Torben uccide la moglie, ormai totalmente ligia a seguire le regole imposte dal nuovo ordine. Ed è da qui che comincia il calvario. Perché dopo una manciata di mesi di detenzione in una struttura e qualche interessante conversazione filosofica con uno psichiatra, l’uomo viene rilasciato da innocente: la morte della donna è dichiarata accidentale. Il male non esiste né, tanto meno, la colpa.

Un girone infernale

Come un personaggio degno di Kafka, Torben tenta in tutti i modi di farsi ascoltare, tormenta funzionari e sbatte da un ufficio all’altro cercando di dichiararsi colpevole, ottenere la sua pena e riavere il figlio una volta scontata. Ma ogni tentativo pare inutile ed egli finisce per ritrovarsi sempre al punto di partenza in un girone infernale in cui sembra essere rimasto l’unico detentore della morale in circolazione, il solo a reclamare giustizia per una donna uccisa:

“Non sarebbero mai riusciti a cambiarlo: lui era e rimaneva un assassino, e non avrebbe smesso di uccidere fino al giorno in cui l’avessero riconosciuto e dichiarato colpevole. «Uccidere…altre persone?» chiesero spaventati. E lui confermò: sì, altre persone, magari i suoi vicini, o qualche signora con cui aveva ballato, la gente per strada, negli uffici, le inservienti delle mense, forse anche un paio di immigrati”.

Resta connesso con la tua comunità leggendo laRegione: ora siamo anche su Whatsapp! Clicca qui e ricorda di attivare le notifiche 🔔