laR+ L'intervista

In Sicilia, mare e aria avvelenati dall’industria petrolchimica

L'italo-svizzero Fabio Lo Verso, nato a Palermo ma ginevrino da vent'anni, ne parla in ‘Il mare colore veleno’, 2° classificato al Premio Nadia Toffa

Mostro industriale
21 dicembre 2023
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Il polo petrolchimico siracusano è il più grande impianto petrolchimico d’Italia e il secondo in Europa, dopo quello di Rotterdam. Tre raffinerie, due impianti chimici, tre centrali elettriche, un cementificio e impianti di gas occupano un’area di circa trenta chilometri che si estende lungo la costa tra la zona nord di Siracusa e la città di Augusta. Questo mostro industriale, che rappresenta il 37% del Pil della Sicilia, è fonte di una quantità impressionante di inquinamento.

Nel 2008, uno studio dell’Ispra, il principale istituto di ricerca ambientale italiano, ha rilevato che le fabbriche hanno scaricato in mare una quantità gigantesca di veleni industriali – mercurio, piombo, arsenico, idrocarburi, diossine ecc. Mescolandosi con il fondale marino, queste sostanze hanno formato una massa enorme di fanghi tossici, l’equivalente di tremila edifici di sei piani. Da oltre settant’anni, questo complesso industriale inquina il mare e la terra di questo angolo della Sicilia orientale, senza che nessuno ne sia ritenuto responsabile.

Eppure pochi osano rompere l’omertà e nessuno è mai stato condannato, come ha scoperto il giornalista italo-svizzero Fabio Lo Verso, nato a Palermo e residente a Ginevra dall’età di vent’anni. Un’inchiesta documentata ne ‘Il mare colore veleno’, per cui è arrivato secondo al Premio Letterario Giornalistico Nadia Toffa, consegnato il 2 dicembre a Palermo. Lo abbiamo incontrato a Ginevra, di ritorno dalla premiazione.

Fabio Lo Verso: chi ha lanciato l’allarme su questa catastrofe ambientale?

La sconvolgente scoperta dell’Ispra [di cui sopra] non suscitò molta attenzione, se non quella di don Palmiro Prisutto. In quegli anni, il parroco di Augusta aveva osservato una percentuale anormalmente alta di vittime di tumori tra i suoi fedeli. Nel febbraio 2014 ha deciso di stilare una lista di ‘martiri del cancro’. Per far emergere questo ‘scandalo sanitario’, ogni ventotto del mese, durante l’omelia, legge i nomi di coloro che sono morti e indica il tipo di tumore che li ha uccisi. Nove anni dopo, l’elenco di don Palmiro comprende più di 1’200 nomi. È il più grande difensore dell’ambiente in Sicilia e uno dei più virulenti nel resto del Paese, dove i sacerdoti sono spesso in prima linea in questa lotta. Da allora è diventato il leader del movimento di protesta locale, che oggi conta circa duecento attivisti, anche se solo ottanta scendono in piazza, gli altri preferiscono fare campagna online.

Perché tutti tacciono?

Per paura di perdere il posto in un mercato del lavoro che è crollato. Negli anni 80, il polo petrolchimico impiegava 26mila lavoratori. Oggi offre solo circa 7’500 posti di lavoro diretti e indiretti, molti dei quali con contratti precari. Nonostante ciò, l’industria continua a sostenere migliaia di famiglie, la maggior parte delle quali vive con un unico reddito. Alla paura di rimanere senza lavoro si aggiunge un misto di rassegnazione, indifferenza e immobilismo che sono componenti culturali ataviche della Sicilia.

Eppure, a tutt’oggi, nessuno è stato condannato per i danni ambientali causati...

Per via dell’intreccio nefasto tra interessi pubblici e privati e la sottomissione dei poteri politici e giudiziari all’onnipotenza dell’industria. La mafia siciliana non ha avuto un ruolo di primo piano in questa faccenda, anche se ne ha tratto indubbiamente vantaggio. A ciò si aggiunge l’accettazione e la rassegnazione della popolazione, che vi ha visto un’opportunità unica per uscire dalla povertà.

Il beneficio economico continua ancora?

Oggi l’attività industriale non è più tanto vantaggiosa per la regione in termini economici, a differenza del passato. La prima raffineria fu costruita nel 1949 dall’industriale milanese Angelo Moratti. Egli importò una fabbrica dismessa dal Texas e la assemblò pezzo per pezzo nei pressi di Augusta. Dodici anni dopo la vendette al gruppo americano Esso, oggi Exxon Mobil, che nel 2008 la cedette alla società statale algerina Sonatrach. Gli altri due impianti di raffinazione del polo, che appartenevano alla società italiana Erg, sono stati acquistati dalla società russa Lukoil. In seguito alla guerra in Ucraina, Lukoil è stata costretta a vendere le sue attività a un fondo di investimento cipriota. Per quanto riguarda il settore chimico, esso è principalmente nelle mani del gruppo sudafricano Sasol. Qui l’industria italiana ha perso la guerra della globalizzazione. I nuovi player fanno ancora profitti, ma li reinvestono lontano da Siracusa.

C’è qualche barlume di speranza?

Attualmente è molto difficile, se non impossibile, stabilire un nesso causale tra l’attività industriale e l’aumento dei casi di tumore. Raramente un tribunale italiano ha ritenuto ammissibile tale nesso. Ma sarà possibile analizzando la placenta delle donne che hanno appena partorito e che funziona come una scatola nera che registra l’intrusione di elementi tossici nel feto. Alcuni scienziati venuti da fuori hanno studiato le placente di quasi 900 madri della regione, tra cui 560 di Augusta. Domani, se uno di questi bambini svilupperà un cancro, potrebbe dimostrare di essere stato a contatto con una sostanza industriale.


Fabio Lo Verso

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